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XIX domenica del T..O.. (C) Sap 18,6-9; Sal 32; Eb 11,1-2.8-19; Lc 12,32-48 La prima lettura è tratta dall'ultimo libro entrato nel canone greco dell'at, perché scritto tra la fine del I sec. a.c. e l'inizio del I sec. d.c., con il nome di «Sapienza di Salomone». L'Autore è un ebreo colto di lingua greca che ci aiuta a riconoscere la sapienza (Chokmà) di Dio nella storia della salvezza. Il nostro passo rappresenta un'interpretazione midrashica di alcune vicende dell'esodo. Sap 18,6: La notte [della liberazione] fu preannunciata ai nostri padri, perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà (ἐκείνη ἡ νὺξ προεγνώσθη πατράσιν ἡμῶν, ἵνα ἀσφαλῶς εἰδότες οἷς ἐπίστευσαν ὅρκοις ἐπευθυμήσωσιν). - La notte (ἐκείνη ἡ νὺξ, lett. «quella notte»). Si parla della notte di pasqua, nella quale Dio si rivelò salvatore, percuotendo gli Egiziani e liberando il suo popolo dalla mano del Faraone (cf Es 12,26-36). La stessa espressione la si ritrova in Es 12,42: «Quella notte sarà una notte di veglia in onore del Signore per tutti gli israeliti, di generazione in generazione». - fu preannunciata ai nostri padri (προεγνώσθη πατράσιν ἡμῶν). Il verbo indica la prescienza profetica dei padri, cioè di Abramo (cf Gn 15,12-16), di Giacobbe (cf Gn 46,3-4), ma anche degli Israeliti del tempo dell'esodo (cf Es 11,4-7; 12,21-22) che in precedenza conobbero la notte dello sterminio dei primogeniti egiziani. - perché avessero coraggio, sapendo bene a quali giuramenti avevano prestato fedeltà (ἵνα ἀσφαλῶς εἰδότες οἷς ἐπίστευσαν ὅρκοις ἐπευθυμήσωσιν). Questa frase dipende dalla precedente mediante un rapporto di conseguenza, più che di fine. Ora sono proprio i patriarchi, e più precisamente Abramo, che hanno ricevuto le promesse del Signore (cf Gen 15; 22,16-18; 26,3-5; 28,13-15). È noto che Abramo ha risposto a tali promesse con la fede (Gen 15,6). Nel Midrash giuridico sull'esodo c'è un testo che accosta esplicitamente Gen 15,13-14 alla Pasqua: «Quando arrivò il momento di compiere la promessa, con cui il Santo aveva giurato ad Abramo che avrebbe riscattato i suoi figli [...], allora il Santo diede loro due comandamenti: il sangue [della circoncisione: Es 12,43-49] e la Pasqua». Ma ancor più importante per i nostri fini è il Poema delle quattro notti, che si trova nel Targum di Es 12,42. Le quattro notti sono quelle della creazione, delle gesta di Abramo, della liberazione dell'egitto e della fine del mondo. 18,7-8: Il tuo popolo infatti era in attesa della salvezza dei giusti, della rovina dei nemici. 8Difatti come punisti gli avversari, così glorificasti noi, chiamandoci a te (προσεδέχθη ὑπὸ λαοῦ σου σωτηρία μὲν δικαίων, ἐχθρῶν δὲ ἀπώλεια 8 ᾧ γὰρ ἐτιμωρήσω τοὺς ὑπεναντίους, τούτῳ ἡμᾶς προσκαλεσάμενος ἐδόξασας). - Il tuo popolo infatti era in attesa della salvezza dei giusti, della rovina dei nemici (προσεδέχθη ὑπὸ λαοῦ σου σωτηρία μὲν δικαίων, ἐχθρῶν δὲ ἀπώλεια). Questa attesa era vissuta anche da Abramo (Gen 15,14). Scrive Filone (20 a.c. - 50 d.c.): «Non si è mai visto un giudizio che interviene per distinguere i buoni dai cattivi con tale evidenza, giacché agli uni ha apportato la morte, agli altri la salvezza» (De vita Mosis I, 146). Questa azione di Dio era attesa dal popolo, fiducioso nelle stesse promesse fatte ai patriarchi. L'espressione «il tuo popolo» (λάος σου), dimostra che il testo appartiene al genere innico: ricordando quella notte, l'autore si rivolge a Dio. 1

- come punisti... così glorificasti ( 8 ᾧ γὰρ ἐτιμωρήσω τούτῳ ἐδόξασας). Su tale principio è costruito in questa parte del Libro della Sapienza il midrash sull'esodo (cf Sap 11,5). Anche qui uno stesso strumento - la morte dei primogeniti - produce due effetti contrari. La morte dei primogeniti fu castigo per gli Egiziani e liberazione per gli Israeliti (cf Es 12,30-42); la distruzione dell'esercito del Faraone nel mar Rosso fu castigo per gli Egiziani e salvezza definitiva degli Israeliti, liberati dall'oppressione egiziana (cf Es 14,15-31). - chiamandoci a te (ἡμᾶς προσκαλεσάμενος). Il verbo προσκαλέομαι, proskaléomai, «chiamo, invito, convoco» designa la vocazione di Israele a essere il popolo santo di Dio con prerogative sacerdotali, cosa che Dio ha realizzato tramite l'alleanza (cf Es 19,5-6; Dt 7,6-8; Os 11,1). Non è stato sufficientemente stimato il valore di questo verbo greco. I LXX, seguiti dalla Vulgata, lo usano due volte nel messaggio che Mosè deve trasmettere al faraone: «Il Dio degli ebrei ci ha chiamati: noi andremo allora nel deserto a tre giorni di cammino, per fare un sacrificio al Signore» (Es 3,18; 5,3LXX). Si ha l'impressione che in questo versetto l'autore colleghi con la decima piaga non soltanto l'uscita dall'egitto, che riveste Israele di gloria, ma anche il sacrificio a cui il Signore ha invitato il suo popolo. Nella tradizione questo sacrificio sembra essere quello del Sinai, con il quale è stata conclusa l'alleanza. Notiamo infine il pronome ἡμᾶς, «ci» (= noi) che nasconde un'idea molto significativa, comune al giudaismo antico, secondo la quale l'esodo riguarda tutte le generazioni che si sono succedute a Mosè, al punto che l'autore del Libro della Sapienza può e deve sentirsi realmente coinvolto negli avvenimenti che ebbero luogo nella notte di Pasqua (cf Es 13,8-9; Dt 5,3). 18,9: I figli santi dei giusti offrivano sacrifici in segreto e si imposero, concordi, questa legge divina: di condividere allo stesso modo successi e pericoli, intonando subito le sacre lodi dei padri (κρυφῇ γὰρ ἐθυσίαζον ὅσιοι παῖδες ἀγαθῶν καὶ τὸν τῆς θειότητος νόμον ἐν ὁμονοίᾳ διέθεντο τῶν αὐτῶν ὁμοίως καὶ ἀγαθῶν καὶ κινδύνων μεταλήμψεσθαι τοὺς ἁγίους πατέρων ἤδη προαναμέλποντες αἴνους). - offrivano sacrifici in segreto (κρυφῇ γὰρ ἐθυσίαζον). L'immolazione dell'agnello pasquale (cf Es 12,6.21) da parte del capofamiglia è il sacrificio pasquale (cf Es 12,27; Dt 16,25), offerto privatamente nella propria casa o insieme alla famiglia più vicina (cf Es 12,3-4.46). - e si imposero, concordi, questa legge divina (καὶ τὸν τῆς θειότητος νόμον ἐν ὁμονοίᾳ διέθεντο). Il racconto biblico parla dell'impegno assunto dagli Israeliti di celebrare di generazione in generazione come un rito perenne la pasqua, memoriale (zikkaron) della loro liberazione dall'egitto (cf Es 12,14-28). In Sapienza non si parla della celebrazione della pasqua, ma della solidarietà da stabilirsi tra tutto il popolo nel condividere allo stesso modo successi e pericoli, come i padri in Egitto. Il verbo greco tradotto con «si imposero» (διέθεντο, ind. aor. di διατίθεμαι, «preparo, predispongo, stabilisco un patto») deve far allusione al sostantivo greco tradotto con «alleanza» (διαθήκη). È stata forse conclusa un'alleanza in occasione della Pasqua? Due testi dell'antico Testamento collegano strettamente l'uscita dall'egitto con l'alleanza. Il primo è tratto dalla grande preghiera di Salomone nel giorno della dedicazione del tempio (2Re 8,21). Il secondo è l'annuncio della nuova alleanza fatto da Geremia (Ger 31,32). Nelle tradizioni sinottiche del Nuovo Testamento, Gesù instaura la nuova alleanza durante l'ultima Cena, come eco all'annuncio di Geremia (cf Lc 22,20; 1Cor 11,25) e in contrasto con l'alleanza sinaitica (cf Mt 26,28; Mc 14,24). Pertanto, il testo di Sap 18,9 si avvicina all'idea neotestamentaria del banchetto pasquale. È possibile che la comunità giudaica di Alessandria abbia insistito maggiormente sull'aspetto di scambio fraterno e di solidarietà tra i commensali. Se è vero che il Siracide riassume la legge dell'alleanza sinaitica nell'affermazione: «Ricorda i precetti e non odiare il prossimo» (Sir 28,7), al nostro autore dev'essere accostato il discorso di Gesù dopo l'ultima Cena: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri» (Gv 13,34). Questo comandamento essenziale della nuova alleanza sembra preparato dall'impegno di alleanza che, secondo Sap 18,9, il popolo eletto ha preso nel momento del banchetto pasquale (cf At 2,42-47). - intonando (προαναμέλποντες, part. pres. di προαναμέλπω). L'autore descrive la celebrazione della prima pasqua sul modello di quelle posteriori quando, dopo il rito, si cantavano inni sacri (cf 2Cr 30,21; Mt 26,30; Mr 14,26). - le sacre lodi dei padri (τοὺς ἁγίους πατέρων αἴνους). Si tratta dei Salmi dell'hallèl che celebrano le grandi opere (magnalia Dei) compiute da Dio in favore del suo popolo (cf Sal 111-118; 136). L'offerta dei sacrifici e il canto degli inni alludono alla Pasqua (cf Mt 26,30). 2

Gli ultimi capitoli del Libro della Sapienza presentano una meditazione sull'esodo, mettendo a confronto, in sette dittici, i diversi episodi vissuti dagli ebrei e dagli egiziani. Sulla base di Es 12, il brano di Sap 18,5-19 riprende gli avvenimenti notturni dell'uscita dall'egitto. Si distinguono tre brevi pericopi: 1) rievoca il banchetto pasquale degli ebrei (18,6-9); 2) ricorda i lamenti di coloro che hanno perso i primogeniti e alla fine riconoscono che questo popolo era figlio di Dio (18,10-13); 3) risale indietro e mostra come nel corso della notte la Parola, come una spada, abbia sterminato i primogeniti, non senza averli prima avvertiti del motivo di tale castigo (8,14-19). Quando la notte nasconde l'insicurezza, lo smarrimento o la debolezza, Dio viene a incontrare l'uomo che ripone fiducia in lui. Abramo, da solo, riceve la promessa e vi crede; quando poi la nascita d'isacco gliene dimostra la prima realizzazione, la sua fede si trasforma in gioia. Di questa medesima promessa il popolo, anch'esso nascosto nella notte e nel segreto delle case, attende con la stessa fede la piena realizzazione. Chiamato da Dio, esso è presente all'appuntamento. Così è sempre il Signore a prendere l'iniziativa, e la grandezza dell'uomo consiste nel rispondervi credendo. Su questa verticalità del rapporto dell'uomo con Dio s'innesta poi l'orizzontalità della comunione fraterna voluta da Dio. Infatti, il sacrificio della Pasqua in onore del Signore è accompagnato dal comandamento di «condividere allo stesso modo successi e pericoli»; o meglio, la Pasqua fonda ed esige il comandamento dell'amore. Come il Poema delle quattro notti del Targum, così il brano di Sap 18,6-9 propone alla nostra meditazione le gesta di Abramo, il padre dei credenti, la notte della celebrazione pasquale dell'antica alleanza e, infine, la notte in cui ogni uomo incontra il Figlio dell'uomo. Ma l'essenziale si è visto nel sacrificio della nuova alleanza, instaurato nella notte in cui è stato consegnato Gesù, il cui comandamento d'amore si rivolge a ognuno di noi oggi. A noi si chiede oggi di credere, di amare e di esultare di gioia, come hanno fatto i nostri padri. La seconda lettura ci propone una straordinaria riflessione sulla fede, partendo dal ricordo di personaggi dell'antico Testamento, modelli di fede eroica. La fede è la base della speranza, perché il credente si affida al Dio fedele che mantiene le promesse, ed è prova dell'esistenza di ciò che non si vede, ma che Dio ha rivelato; ed egli non si inganna né può ingannare. Il brano testimonia la considerazione in cui erano tenuti presso la comunità ebraica e cristiana i protagonisti della storia della salvezza. Nella Bibbia il loro elogio si trova anche in Sap 10 e Sir 44-50. Eb 11,1-2: La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede. 2 Per questa fede i nostri antenati sono stati approvati da Dio (ἔστιν δὲ πίστις ἐλπιζομένων ὑπόστασις, πραγμάτων ἔλεγχος οὐ βλεπομένων. 2 ἐν ταύτῃ γὰρ ἐμαρτυρήθησαν οἱ πρεσβύτεροι). - La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede (ἔστιν δὲ πίστις ἐλπιζομένων ὑπόστασις, πραγμάτων ἔλεγχος οὐ βλεπομένων). Le traduzioni possibili di questo impegnativo versetto sono molteplici, tuttavia tutte suppongono ed elaborano la seguente: «La fede è fondamento (ὑπόστασις, hypóstasis)-esperienza delle realtà che si sperano e prova (ἔλεγχος, élenchos) di quelle che non si vedono», la più vicina letteralmente al testo greco e alla Vulgata Latina. Dal verbo hyphístamai da cui ὑπόστασις deriva il senso di «dare sostanza, dare fondamento». Dunque, «la fede è fondamento...», offre una base, una preconoscenza delle realtà celesti, un assaggiare in anticipo quella conoscenza esperienziale che ci farà beati nel futuro. Questa descrizione è paradigmatica, una vera definizione. Il termine πίστις, pístis, «fede» designa pienezza della fede (1Pt 1,7), fiducia (Rm 4,3), lealtà (Ap 13,10). Fede è anche il modo di credere (Rm 3,23) o il contenuto del credere (Rm 10,8). «Credere» richiede un assenso della mente (Gc 2,19) e un conseguente impegno personale (Gv 1,12). Con la parola «fede» si designa ancora la comunità cristiana (Gal 6,10, «fratelli nella fede»), ma anche il corpus del pensiero cristiano che forma il deposito della fede (1Tm 6,20; 2Tm 1,12.14; Gd 3). Più che una definizione della fede, al v. 1 si ha una vivace descrizione del credere. La fede nella promessa di Dio è già speranza in lui (è il significato predominante in Eb 11). I personaggi dell'at sono di esempio ai cristiani, che come loro si riconoscono stranieri e pellegrini sulla terra (v. 13). Il futuro promesso ai credenti dell'at è identico a quello promesso ai cristiani (cf 11,40). L'autore di Ebrei riformula il pensiero ellenistico-filoniano, secondo cui la pístis guarda alla realtà invisibile e celeste che può essere colta solo mediante la fede. 3

Il termine ὑπόστασις, hypóstasis, «fondamento» si ritrova anche in 2Cor 9,4 e 11,17. Dal lato oggettivo, hypóstasis è la vita divina invisibile, eppure già sperimentata nel tempo presente. Dal lato soggettivo, hypóstasis è sicurezza di raggiungere ciò che si spera, ma che non si vede; è fiducia incrollabile di chi vive nella certezza che l'opera di Dio e il suo compimento futuro sono molto più importanti del mondo presente: «La fede dà sostanza-sostegno alle nostre speranze». Con la lettura soggettiva di hypóstasis la fede è concepita come convinzione personale; essa è fiducia sicura e confidente, appoggio fiducioso. In tal modo, l'autore ci invita a guardare oltre l'oggettività della sostanza, intesa come ousía (essenza). L'interpretazione soggettiva («ferma certezza - assenza di dubbio») ha preso piede nel mondo protestante, ha influenzato non poco quello cattolico, ha avuto serie risonanze. Nella fede si sperimentano come esistenti le realtà che si sperano, e la fede non inganna. Il termine ἔλεγχος, élenchos, presenta due significati: oggettivo (argomento, prova, dimostrazione) e soggettivo (convinzione, persuasione). Si tratta della persuasione data da Dio, ma anche invito alle comunità a saper dare ragione della propria fede. Si può dire che essendo «prova» (ἔλεγχος), la fede produce convinzione e persuasione. Lo sforzo globale di Ebrei è persuadere a non abbandonare la fede cristiana. Il termine πρᾶγμα, prãgma traduce in greco i termini ebraici davàr (cosa, affare, parola) ed efetz (cosa, oggetto) e indica sempre concretezza. La fede perciò è collegata ai πράγματα, prágmata, alle «realtà vere», certamente esistenti, ma non ancora visibili. Essa le anticipa nella speranza. Dunque le «cose» di 11,1 sono le realtà celesti, divine, trascendenti. Ma solo queste? Il v. 2 ci aiuta ulteriormente. I verbi ἐλπιζομένων οὐ βλεπομένων, elpizoménōn ou blepoménōn, «delle cose che si sperano delle cose che non si vedono», dimostrano che la fede è una realtà che si muove tra il «già» e il «non ancora», tra tempo ed éschaton. Ciò che infatti attendiamo di vedere è la sottomissione dell'universo a Gesù, il Cristo-messia, per poco tempo inferiore agli angeli (Eb 2,7; cf 1Cor 15,28), re e sommo sacerdote (2,8) nei giorni della sua carne (5,7), incoronato di gloria e di onore dopo quei giorni (2,7), esaltato alla destra della Maestà (1,3), insediato quale sovrano assoluto sull'opera completa delle sue mani (2,7); tutto gli è stato sottomesso (2,8). Questa vittoria apocalittica è già certa e la si sperimenta nella fede. A che cosa vale allora raffreddarsi in essa o addirittura abbandonarla? 11,8: Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava (Πίστει καλούμενος Ἀβραὰμ ὑπήκουσεν ἐξελθεῖν εἰς τόπον ὃν ἤμελλεν λαμβάνειν εἰς κληρονομίαν, καὶ ἐξῆλθεν μὴ ἐπιστάμενος ποῦ ἔρχεται). - Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo (Πίστει καλούμενος Ἀβραὰμ ὑπήκουσεν ἐξελθεῖν εἰς τόπον, lett. «per fede chiamato Abramo obbedì per uscire verso un luogo»). Inizia qui la più consistente unità letteraria del cap. 11, dedicata ad Abramo, Isacco e Sara. Abramo, chiamato da Dio, parte per l'ignoto. Esempio di fiducia, piena di speranza, Abramo è il giusto per eccellenza, modello per la comunità giudeocristiana aggredita dal torpore della pigrizia e dalle minacce di una politica poco favorevole. Punto di riferimento per Ebrei è Gen 12,1.4, dove si ha il racconto della vocazione di Abramo. Il verbo al passivo (καλούμενος) rivela l'origine divina della vocazione. La risposta di Abramo è pronta: ascolta ed esegue (ὑπήκουσεν ἐξελθεῖν, obbedì per uscire), si mise in movimento. Non chiede di conoscere in anticipo «dove» recarsi. Il suo è un abbandono pieno di fiducia alla chiamata di Dio ed è rinuncia a tutte le sicurezze terrene: per la fede, nella fede e in forza della fede (πίστει, pístei), ascolta, esegue, lascia la propria casa e va verso l'ignoto, da straniero in terra straniera; è lo specificum della fede di Abramo, in linea con 11,1. In cammino verso il risposo messianico, Abramo prefigura la comunità cristiana in marcia verso il traguardo sperato; come lui, anch'essa non desista da quel cammino. - per un luogo (εἰς τόπον). Questa formula generica e imprecisata indica la più completa oscurità sul «da dove» Abramo parte e «verso dove» si pone in movimento. La destinazione di Abramo è «un luogo che doveva ricevere in eredità», meglio precisato al v. 9 come «terra della promessa» (γῆ τῆς ἐπαγγελίας, gễ epaggelías). Il messaggio è chiaro: la terra della promessa non è un luogo terreno; essa è oltre il tempo, nel celeste riposo di Dio. Abramo, che non sa quale sia la sua mèta finale, può simboleggiare Cristo, il quale non conosceva quale fosse la volontà di Dio; egli infatti l'apprese dalle cose che patì (5,8). 11,9: Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende, come anche Isacco e Giacobbe, coeredi della medesima promessa (πίστει παρῴκησεν εἰς γῆν τῆς ἐπαγγελίας ὡς ἀλλοτρίαν ἐν σκηναῖς κατοικήσας μετὰ Ἰσαὰκ καὶ Ἰακὼβ τῶν συγκληρονόμων τῆς ἐπαγγελίας τῆς αὐτῆς). - Per fede, egli soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera (πίστει παρῴκησεν εἰς γῆν τῆς ἐπαγγελίας ὡς ἀλλοτρίαν, lett. «per fede dimorò nella terra promessa come [regione] straniera»). Ancora per 4

fede Abramo s'incammina verso l'assenza totale di ogni possedimento. Egli resta straniero in quella terra, promessa eppure straniera (ἀλλοτρίαν, allotrían); di essa non gli apparterrà «neppure un metro» (At 7,5), nemmeno l'orma dei suoi piedi. Il verbo παρῴκησεν, parókēsen (da paroikeĩn) esprime il senso della provvisorietà. Del resto, aver trovato una terra e avervi posto le tende non è ancora poterla dichiarare propria. Questa lettura, propria di Ebrei, trova delle equivalenze nella descrizione dei saggi estranei al mondo (Filone), o dei cristiani «quaggiù stranieri» (1Pt 1,17; Lettera a Diogneto 6,8). - abitando sotto le tende (ἐν σκηναῖς κατοικήσας). La formula «abitare sotto le tende», unica nel suo genere in tutta la Bibbia, si ricollega alla tenda del culto, ma per il nostro autore non si tratta di una tenda terrena, ma celeste; la terra promessa non è una terra promessa, ma è la promessa di una terra che si trova in cielo: nel suo riposo. 11,10: Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso (ἐξεδέχετο γὰρ τὴν τοὺς θεμελίους ἔχουσαν πόλιν ἧς τεχνίτης καὶ δημιουργὸς ὁ θεός). - Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta (ἐξεδέχετο γὰρ τὴν τοὺς θεμελίους ἔχουσαν πόλιν). La πόλις, pólis, «città» aspettata da Abramo è Gerusalemme. L'autore, mentre ricorda ai pellegrini sulla terra di avere in Dio una sicura àncora di vita (Eb 6,19-20), ora sostiene che Gesù ha già operato il collegamento con la città celeste e futura. Per indicare l'attesa della città futura da parte di Abramo, l'autore usa il verbo ἐξεδέχετο, exedécheto, «aspettava» e ne fa seguire altri due nei versetti seguenti. Abramo, Isacco e Giacobbe sono alla ricerca (ἐπιζητεῖν, epizēteĩn, 11,14) di una patria vera, migliore, quella celeste, da essi desiderata (ὀρέγεσθαι, orégesthai, 11,16), ma ora invisibile. I tre verbi sono una trilogia aperta al futuro: le speranze in una patria terrena non si sono ancora avverate, non resta che puntare sulla Gerusalemme invisibile e celeste, la vera città di Dio, trascendente (12,27); per quanto «futura», essa è sicura. Pellegrinante verso essa, il popolo di Dio ne è anche in attesa. Costruita da Dio su solide fondamenta, dunque imperitura, la città celeste nel NT è la Gerusalemme superiore (Gal 4,26) contrapposta all'inferiore (Gal 4,25), è la città del Dio vivente, è «il monte Sion, la Gerusalemme celeste» (Eb 12,22). Per i destinatari giudeo-etnicocristiani, essa è una realtà futura (13,14b); la possono tuttavia contemplare e pregustare, già ora, nella celebrazione liturgica (12,22-24), nella «nostra assemblea» (10,25a). I credenti cercano la patria migliore, «la città del riposo» (Pseudo-Clementine 13,3), la città santa di Dio, la città nuova che viene dal cielo (cf Ap 3,12; 21,2.10). In Eb 11,10, invece, la città non è indicata come «santa», né viene dall'alto: non è il monte alto di Dio di Mi 4,1; non è la Gerusalemme di Zc 14,10 né la Sion di Is 54,10-13. Non è neppure la città di Davide. L'apocalittica dunque non contribuisce all'identificazione della città di Ebrei: Is 54,11 e 4Esdra 10,27 hanno in comune il termine themélios (fondamento), ma non più di questo. Povero è anche il raccordo «città-riposo» in 4Esdra 8,52. In 1Enoch 10,18-19 e in 2Baruch 4,3 si descrive un nuovo palazzo che deve sostituire l'antico. Per i rabbini, nella Gerusalemme futura non potrà entrare chiunque, come avviene nella Gerusalemme terrestre (b.baba Batra 75b; cf Oracoli Sibillini 5,420-427). Per Ebrei si tratta di una città già esistente, ma invisibile, già programmata e realizzata da Dio fin dai tempi del paradiso (2Baruch 4,3). In essa già Enoch è stato rapito nel godimento eterno (Libro di Enoch [slavo] 55,2). Del tutto inesistente sulla terra, quella città si renderà visibile alla fine dei tempi (4Esdra 13,36), là dove esisteva il tempio (1Enoch 90,29; 2Baruch 32,2.4). Ebrei, invece, non è interessato alla localizzazione di questa città celeste né alla sua venuta dall'alto. Essa esiste già e da invisibile diventerà visibile e sarà incrollabile (12,27). Essa è la città di Dio, del sommo sacerdote Gesù, luogo del perenne sacrificio redentore, del riposo liturgico. Di questa città scrive Giovanni Crisostomo (344-407): «Non sai tu che la vita qui è solo un viaggio? Sei tu dunque cittadino? Tu sei solo viandante. Hai capito cosa ho detto? Tu non sei cittadino, tu sei solo viandante e pellegrino. Non dire: io ho questa o quella città. Nessuno ha una città. La città è in alto. Il presente è "strada"» verso essa. - dalle salde fondamenta (τοὺς θεμελίους, toùs themelíous) è immagine che si incontra in Is 54,11; Ap 21,14; 4Esdra 10,27; 1QH 6,25-29: Dio costruisce una città fondata sulla roccia, fortificata da alte mura e ne prescrive le misure delle fondamenta. Queste sono solide e stabili, permanenti e non provvisorie, come è invece nel caso delle tende. Il nostro testo afferma che Gerusalemme non è una città come le altre. - il cui architetto e costruttore è Dio stesso (ἧς τεχνίτης καὶ δημιουργὸς ὁ θεός). La città in questione è «futura», ma solo per chi è in cammino verso di essa. La città terrestre è imperfetta e instabile, non più che una «tenda», mentre la città celeste è stabile e perfetta. Il sostantivo τεχνίτης, technítēs, «architetto» è hápax legómenon in Ebrei. Dio è l'artefice delle opere che si vedono ovunque (Sap 13,1). Anche δημιουργός, dēmiourgós, «costruttore» è hápax legómenon in Ebrei e nel NT. Se il cosmo è la città di Dio in cui abitare, scrive Filone di Alessandria, egli ne è il costruttore. E lo è di tutto ciò che è sapiente e saggio, buono e prezioso. 5

11,11: Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell età, ricevette la possibilità di diventare madre, perché ritenne degno di fede colui che glielo aveva promesso (πίστει καὶ αὐτὴ Σάρρα [στεῖρα] δύναμιν εἰς καταβολὴν σπέρματος ἔλαβεν καὶ παρὰ καιρὸν ἡλικίας ἐπεὶ πιστὸν ἡγήσατο τὸν ἐπαγγειλάμενον). - Per fede, anche Sara, sebbene fuori dell età, ricevette la possibilità di diventare madre (πίστει καὶ αὐτὴ Σάρρα στεῖρα δύναμιν εἰς καταβολὴν σπέρματος ἔλαβεν καὶ παρὰ καιρὸν ἡλικίας, lett. «per fede la stessa Sara sterile forza per la fondazione della discendenza ricevette e oltre il tempo dell'età»). Sara è la protagonista di questo versetto; pur sterile e avanti negli anni (Gen 18,11), viene rivitalizzata nel suo potere di concepire. Questo fatto è espresso con la formulazione greca propria della potenza procreatrice maschile: «ricevette la capacità di fare agire il seme maschile, o ricevette la capacità di fondare una stirpe» (δύναμιν εἰς καταβολὴν σπέρματος ἔλαβεν). Secondo la concezione giudaica, καταβολὴ σπέρματος, katabolè spérmatos può essere detto anche della donna: «Il padre dà il seme bianco..., la madre dà il seme rosso (sangue)..., il Santo, sia benedetto, dà lo spirito-anima» (b.niddàh 31a). Pertanto, non solo Abramo ha agito per fede, ma anche Sara che ha ricevuto la capacità di lasciare agire nel suo seno il seme ricevuto da Abramo. Da allora ella ha considerato Dio degno di fede, avendo egli adempiuto in lei quello che aveva promesso. Per la fede di entrambi nacquero discendenti come le stelle del cielo, come la sabbia del mare (v. 12). 11,12: Per questo da un uomo solo, e inoltre già segnato dalla morte, nacque una discendenza numerosa come le stelle del cielo e come la sabbia che si trova lungo la spiaggia del mare e non si può contare (διὸ καὶ ἀφ' ἑνὸς ἐγεννήθησαν, καὶ ταῦτα νενεκρωμένου, καθὼς τὰ ἄστρα τοῦ οὐρανοῦ τῷ πλήθει καὶ ὡς ἡ ἄμμος ἡ παρὰ τὸ χεῖλος τῆς θαλάσσης ἡ ἀναρίθμητος). L'apostolo Paolo elabora una profonda riflessione teologica a partire dalla vicenda di Abramo e Sara: 18 Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. 19 Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo aveva circa cento anni e morto il seno di Sara. 20 Di fronte alla promessa di Dio non esitò per incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, 21 pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. 22 Ecco perché gli fu accreditato come giustizia. 23 E non soltanto per lui è stato scritto che gli fu accreditato, 24 ma anche per noi, ai quali deve essere accreditato: a noi che crediamo in colui che ha risuscitato dai morti Gesù nostro Signore, 25 il quale è stato consegnato alla morte a causa delle nostre colpe ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione (Rom 4,18-25). 11,13-14: Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi, ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. 14 Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria (Κατὰ πίστιν ἀπέθανον οὗτοι πάντες, μὴ λαβόντες τὰς ἐπαγγελίας ἀλλὰ πόρρωθεν αὐτὰς ἰδόντες καὶ ἀσπασάμενοι καὶ ὁμολογήσαντες ὅτι ξένοι καὶ παρεπίδημοί εἰσιν ἐπὶ τῆς γῆς. 14 οἱ γὰρ τοιαῦτα λέγοντες ἐμφανίζουσιν ὅτι πατρίδα ἐπιζητοῦσιν). - Nella fede morirono tutti costoro, senza aver ottenuto i beni promessi (Κατὰ πίστιν ἀπέθανον οὗτοι πάντες, μὴ λαβόντες τὰς ἐπαγγελίας, lett. «per fede morirono questi tutti, non avendo ricevuto le promesse»). I patriarchi, pervenuti al termine della loro vita terrena senza aver goduto il contenuto della loro speranza, sono rimasti saldi nella fede salutando da lontano (πόρρωθεν) i beni promessi. - ma li videro e li salutarono solo da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra (ἀλλὰ πόρρωθεν αὐτὰς ἰδόντες καὶ ἀσπασάμενοι καὶ ὁμολογήσαντες ὅτι ξένοι καὶ παρεπίδημοί εἰσιν ἐπὶ τῆς γῆς, lett. «ma da lontano esse avendo viste e avendole salutate e riconosciute perché stranieri e pellegrini sono sulla terra»). Bella è l'immagine del pellegrino che marcia verso la mèta che non ha ancora raggiunto e che vede da lontano. Il pensiero va qui a Mosè: la terra promessa ad Abramo, Isacco e Giacobbe, egli la vede solo da lontano ma non vi entra (Dt 34,4). Ma ai suoi destinatari l'autore dice che i patriarchi, pellegrini tra due mondi, il terrestre e il celeste, aspirano nella speranza e nella fede a quella patria, ove essi possono già liberamente entrare grazie al sangue di Gesù (10,19), che lo ha loro dischiuso per sempre. Si tratta solo di non allontanarsi dalla speranza in quella fede. Perseguitati nel corpo e nello spirito, i cristiani si ritrovano in un crescente clima di martirio. Stranieri e pellegrini (ξένοι, xénoi e παρεπίδημοι parepídēmoi) essi lo sono solo perché testimoni di una fede che assicura loro beni celesti. - 14 Chi parla così, mostra di essere alla ricerca di una patria (οἱ γὰρ τοιαῦτα λέγοντες ἐμφανίζουσιν ὅτι πατρίδα ἐπιζητοῦσιν). Coloro che dichiarano di essere di passaggio sulla terra (Gen 23,4) annunziano in modo pieno e inequivocabile di essere alacremente alla ricerca di una patria. Ora, i patriarchi sono in questo tipo di ricerca; essi non guardano indietro, ma in avanti, anzi in alto, dove li attende la patria celeste, migliore di quella terrestre (v. 6

16); essi sperano e credono nella patria invisibile verso cui sono in cammino. E con essi, tutti noi, destinatari dello scritto. 11,15-16: Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi; 16 ora invece essi aspirano a una patria migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio. Ha preparato infatti per loro una città (καὶ εἰ μὲν ἐκείνης ἐμνημόνευον ἀφ' ἧς ἐξέβησαν, εἶχον ἂν καιρὸν ἀνακάμψαι 16 νῦν δὲ κρείττονος ὀρέγονται τοῦτ' ἔστιν ἐπουρανίου. διὸ οὐκ ἐπαισχύνεται αὐτοὺς ὁ θεὸς θεὸς ἐπικαλεῖσθαι αὐτῶν ἡτοίμασεν γὰρ αὐτοῖς πόλιν). - Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto la possibilità di ritornarvi (καὶ εἰ μὲν ἐκείνης ἐμνημόνευον ἀφ' ἧς ἐξέβησαν, εἶχον ἂν καιρὸν ἀνακάμψαι, lett. «e se certo quella ricordavano dalla quale uscirono, avevano avuto tempo di ritornare»). Il fatto che i patriarchi non tornino là da dove erano usciti denota che la loro patria d'origine non era in grado di estinguere la loro sete di una patria migliore. Qui l'autore introduce un elemento escatologico nel comportamento dei patriarchi. Né la Mesopotamia, patria dei patriarchi, né la terra di Canaan sono state da essi considerate le città in cui porre le proprie tende. Non resta che tendere alla patria celeste, a Dio: da lui essi sono «usciti», a lui, nel suo riposo, essi devono «tornare». - Dio non si vergogna di essere chiamato loro Dio (οὐκ ἐπαισχύνεται αὐτοὺς ὁ θεὸς θεὸς ἐπικαλεῖσθαι αὐτῶν). Si osservi l'inclusione ἐπικαλεῖσθαι epikaleĩsthai, «essere chiamato» (v. 16) - καλούμενος, kaloúmenos, «chiamato» (v. 8): Dio, che non disdegna di chiamarsi loro Dio, è il Dio che chiama. L'inizio e il traguardo del cammino di fede sono nascosti in Dio; giungono a compimento attraverso Gesù, pioniere e perfezionatore della fede (12,2); è lui ad aver preparato per i suoi la città celeste, la basileía, il «regno» (Mt 25,34). Ciò dice ancora quanto grande sia la ricompensa per chi non vacilla nella fede in lui (cf Eb 10,35). Come gli eroi della fede in epoca biblica sono stati pellegrini verso la patria celeste, così i cristiani, compiuta la loro peregrinazione nel deserto, sono approdati al monte Sion, alla Gerusalemme celeste, alla città del Dio vivente, di Cristo, degli angeli, alla città dei giusti (12,22-24). Anticipato già «oggi», quell'approdo sarà pieno nell'adunanza festiva che ha luogo in cielo, alla quale somigliano altre che si tengono «intanto» sulla terra. 11,17-19: Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, 18 del quale era stato detto: Mediante Isacco avrai una tua discendenza. 19 Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo (Πίστει προσενήνοχεν Ἀβραὰμ τὸν Ἰσαὰκ πειραζόμενος καὶ τὸν μονογενῆ προσέφερεν, ὁ τὰς ἐπαγγελίας ἀναδεξάμενος, 18 πρὸς ὃν ἐλαλήθη ὅτι ἐν Ἰσαὰκ κληθήσεταί σοι σπέρμα, 19 λογισάμενος ὅτι καὶ ἐκ νεκρῶν ἐγείρειν δυνατὸς ὁ θεός, ὅθεν αὐτὸν καὶ ἐν παραβολῇ ἐκομίσατο). - Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco (Πίστει προσενήνοχεν Ἀβραὰμ τὸν Ἰσαὰκ πειραζόμενος). Se al v. 8 Abramo è il καλούμενος, kaloúmenos «chiamato» con speciale vocazione a essere forza trainante nella fede per noi tutti, qui egli è il «tentato» (πειραζόμενος, peirazómenos). Stando al Libro dei giubilei (17,17-18; 19,8-9), si tratta della nona tentazione delle dieci cui Dio ha sottoposto Abramo: il sacrificio di Isacco (cf Gen 22: 'aqedà, legamento). - offrì il suo unigenito figlio (τὸν μονογενῆ προσέφερεν). Isacco è figlio unigenito o figlio unico e di chi? Abramo ebbe infatti due figli: Ismaele da Agar (Gen 16) e Isacco da Sara (Gen 21), e ancora sei figli da Ketura (Gn 25,1). Eppure, solo Isacco è detto unigenito (monogenés) di Abramo in vista dell'elezione. Pietra basilare in tutta questa vicenda è la fede. La grande prova di Abramo (vv. 17-18) non fu tanto la chiamata di Dio a lasciare la sua terra di Charran (Gen 12,1), ma il comando a eseguire il sacrificio di Isacco. - 19 Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo riebbe anche come simbolo (λογισάμενος ὅτι καὶ ἐκ νεκρῶν ἐγείρειν δυνατὸς ὁ θεός, ὅθεν αὐτὸν καὶ ἐν παραβολῇ ἐκομίσατο). Abramo riceve Isacco come un risorto dalla morte; Isacco è cioè il simbolo (παραβολή) della potenza di Dio, capace di richiamare i morti alla vita. Ebrei conosce la tradizione targumica sull'argomento, secondo la quale il ritorno di Isacco con Abramo dal luogo del sacrificio è come un ritorno dalla morte. Isacco diventa così un'anticipazione simbolica della morte e risurrezione di Gesù. «O Dio eterno, Dio nostro, guarda benigno alla scena del sacrificio, quando Abramo legò suo figlio sull'altare. Ricordati ogni giorno del sacrificio di Isacco in favore della sua discendenza» (preghiera di Rosh hashannà). Abramo ha imparato che Dio provvede (Gen 22,8.14). Anche Ebrei pensa nella direzione di una fede che è «fondamento-esperienza delle realtà che si sperano» (11,1). Dio porta a compimento le sue promesse. Per il v. 19, la fede di Abramo nell'offrire Isacco a Dio fu fede nella risurrezione. A una lettura più attenta, poi, se Giacobbe rappresenta Israele, Isacco rappresenta tutti gli eredi della promessa, 7

ben oltre le dodici tribù, dunque anche i gentili. Anche Paolo illustra il rapporto tra ebrei e gentili in termini di risurrezione (Ef 5,14). Analogo il testo di Luca che tratteggia con un linguaggio di risurrezione il contrasto tra i due fratelli della parabola del figliol prodigo come l'attrito tra ebrei e gentili (Lc 15,24). Il vangelo continua a invitarci a confidare nella Provvidenza divina, tenendo conto che non siamo proprietari, ma amministratori di beni altrui. Lc 12,32: Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno (Μὴ φοβοῦ, τὸ μικρὸν ποίμνιον, ὅτι εὐδόκησεν ὁ πατὴρ ὑμῶν δοῦναι ὑμῖν τὴν βασιλείαν). - Non temere, piccolo gregge (Μὴ φοβοῦ, τὸ μικρὸν ποίμνιον). Il popolo d'israele è presentato spesso con la metafora del gregge. Essa sottintende che il pastore è Dio, che si prende cura del suo popolo (cf Is 40,11). Parlando di «piccolo gregge» (12,32) Gesù ha in mente i discepoli. In altri passi del NT (cf At 20,28) il termine indica la Chiesa ed è usato per richiamare le responsabilità "pastorali" dei capi delle comunità. Per escludere ogni trionfalismo, il detto definisce il gregge che riceve il regno come doppiamente piccolo: con l'aggettivo μικρὸν, mikrón, «piccolo», e col diminutivo ποίμνιον, poímion «piccolo gregge» (cf Is 40,9-11; 49,9-10; Mc 14,27). L'immagine del «gregge» fa pensare alla figura del «pastore». Non temere (μὴ φοβοῦ): la paura e le preoccupazioni sono comprensibili, perché il «piccolo gregge», come il «resto» d'israele, rimane fragile e minacciato. Ma, più forte delle minacce, la benevolenza divina (εὐδοκία, tema molto caro a Luca, cf 2,14; 3,22; 10,21) ha operato il paradosso, il capovolgimento promesso dal Magnificat (1,49-55). Proprio a questo «piccolo gregge», sottomesso e oppresso, il Padre dà il regno. - al Padre vostro è piaciuto dare a voi il Regno (εὐδόκησεν ὁ πατὴρ ὑμῶν δοῦναι ὑμῖν τὴν βασιλείαν). Il Padre si è compiaciuto di dare (δοῦναι) il Regno (βασιλεία) ai discepoli di Gesù. Il verbo all'aoristo (εὐδόκησεν, aor. di εὐδοκέω, eudokéō) segnala che il Regno è già stato dato. Per il momento questa βασιλεία, basileía è sperimentata solo da un «piccolo gregge». 12,33: Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma (Πωλήσατε τὰ ὑπάρχοντα ὑμῶν καὶ δότε ἐλεημοσύνην ποιήσατε ἑαυτοῖς βαλλάντια μὴ παλαιούμενα, θησαυρὸν ἀνέκλειπτον ἐν τοῖς οὐρανοῖς, ὅπου κλέπτης οὐκ ἐγγίζει οὐδὲ σὴς διαφθείρει). - Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina (Πωλήσατε τὰ ὑπάρχοντα ὑμῶν καὶ δότε ἐλεημοσύνην). Invece di vietare l'arricchimento Gesù propone la prodigalità. Il convertito che si dirige verso Dio si allontana dalle sue ricchezze. Il contrasto tra i due tesori è radicale. Luca non impone a nessuno il voto di povertà. Vuole invece, in nome del suo maestro, con la messa a disposizione delle risorse, esprimere il distacco interiore e incoraggiare una carità che compensi la penuria di ciascuno. La comunità cristiana pratica così la divisione dei beni. Gli esempi di Levi e di Zaccheo, di Barnaba (At 4,37) e degli apostoli mostrano come il Cristo lucano esiga la condivisione e non la povertà. Al tempo di Gesù il giudaismo aveva valorizzato tre opere buone: il digiuno, la preghiera e l'elemosina. Solo il movimento esseno esigeva la rinuncia ai beni personali e la divisione all'interno della comunità. In Grecia e a Roma era nota, soprattutto nello stoicismo, l'indifferenza di fronte ai beni materiali, ma questo distacco interiore era più importante della liberalità in sé. Il Gesù di Luca si caratterizza invece per il suo radicalismo gioioso, per l'assenza di legalismo e per l'attenzione riservata al prossimo. Luca non sottrae all'uomo il diritto di desiderare e di possedere; ma pone in Dio queste legittime tendenze umane. - fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli (ποιήσατε ἑαυτοῖς βαλλάντια μὴ παλαιούμενα, θησαυρὸν ἀνέκλειπτον ἐν τοῖς οὐρανοῖς). L'immagine del tesoro celeste ricorda la parabola di Matteo: Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo (13,44) e diversi testi paolini (2Cor 4,7; Col 2,3). L'idea è che il dar via i beni terreni sotto forma di elemosina (ἐλεημοσύνη) merita un premio da parte di Dio. L'idea di far elemosina è assai diffusa nella letteratura rabbinica (cf m.peah 1,1; bt Shabbath 156b; bt Rosh hashanah 16b; bt Gittin 7a-b). Una versione composita di questo detto si trova anche nel Vangelo di Tommaso 76. 12,34: Perché, dov è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore (ὅπου γάρ ἐστιν ὁ θησαυρὸς ὑμῶν ἐκεῖ καῖ ἡ καρδία ὑμῶν ἔσται). - dov è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore (ἐστιν ὁ θησαυρὸς ὑμῶν ἐκεῖ καῖ ἡ καρδία ὑμῶν ἔσται). La frase di Gesù suona come un proverbio che accosta il cuore al tesoro (cf Mt 6,21). Mentre la sapienza popolare colloca il 8

cuore vicino all'oggetto del suo desiderio, la sapienza di Gesù drammatizza la minaccia: i beni materiali attirano il cuore e lo alienano. Per giungere alla separazione che cosa occorre? Distribuire i beni e modificare il cuore. 12,35-36: Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; 36 siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito (Ἔστωσαν ὑμῶν αἱ ὀσφύες περιεζωσμέναι καὶ οἱ λύχνοι καιόμενοι 36 καὶ ὑμεῖς ὅμοιοι ἀνθρώποις προσδεχομένοις τὸν κύριον ἑαυτῶν πότε ἀναλύσῃ ἐκ τῶν γάμων, ἵνα ἐλθόντος καὶ κρούσαντος εὐθέως ἀνοίξωσιν αὐτῷ). - Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese (Ἔστωσαν ὑμῶν αἱ ὀσφύες περιεζωσμέναι καὶ οἱ λύχνοι καιόμενοι). Troviamo la medesima espressione nel contesto della prima Pasqua in Egitto: «con i fianchi cinti» (Es 12,11: motnekem chagurim). «Cingersi i fianchi» facilitava la marcia del viaggiatore o il lavoro dell'operaio. Slegare la cintura significava invece distendersi e riposarsi. La parabola dei due servi sottolinea non solo l'importanza della vigilanza, ma anche il rilievo che essa ha per coloro che hanno responsabilità nella comunità, e che più degli altri devono essere attenti e pronti. Luca presenta la Chiesa nella sua struttura con la presenza di alcuni che hanno la funzione di «amministratori» (οἰκονόμοι, oikonómoi, cioè «responsabili della casa»), le guide della comunità. - 36 siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze (ὑμεῖς ὅμοιοι ἀνθρώποις προσδεχομένοις τὸν κύριον ἑαυτῶν πότε ἀναλύσῃ ἐκ τῶν γάμων). «Aspettare» (προσδέχομαι) è un atteggiamento che può essere gioioso, zelante, impaziente o disperato a seconda dei casi. L'esempio proposto qui fa pensare a un'attesa che non andrà delusa e l'esortazione a essere pronti la inserisce in un'atmosfera liturgica gioiosa. I credenti sono al lavoro, ma lavorano con la gioia di essere liberi. Non faranno attendere alla porta colui di cui aspettano pieni di speranza la venuta. Loro stessi sono usciti dalla casa di schiavitù, secondo il simbolismo dell'esodo (v. 35). Vivono da allora nella casa del Padre (v. 36). Ma la riserva escatologica deve preservarli da un folle entusiasmo: sono ancora tenuti a vivere in condizione etica nell'attesa del banchetto messianico. 12,37-38: Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. 38 E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell alba, li troverà così, beati loro! (μακάριοι οἱ δοῦλοι ἐκείνοι, οὓς ἐλθὼν ὁ κύριος εὑρήσει γρηγοροῦντας ἀμὴν λέγω ὑμῖν ὅτι περιζώσεται καὶ ἀνακλινεῖ αὐτοὺς καὶ παρελθὼν διακονήσει αὐτοῖς. 38 κὰν ἐν τῇ δευτέρᾳ κὰν ἐν τῇ τρίτῃ φυλακῇ ἔλθῃ καὶ εὕρῃ οὕτως, μακάριοι εἰσιν ἐκείνοι). - Beati quei servi (μακάριοι οἱ δοῦλοι ἐκείνοι). Il macarismo del v. 37a si ricollega alla beatitudine della parabola successiva (v. 43). I «servi» (δοῦλοι) che adempiono al loro compito sono già «beati» (μακάριοι), non solo perché saranno ricompensati, ma perché hanno assunto l'atteggiamento giusto e sono in buoni rapporti col padrone. Luca inserisce nel v. 37b un oracolo di salvezza che prevede un capovolgimento dei ruoli: il Cristo da padrone diventa servitore. Nel banchetto del regno (14,15) il servizio sarà assicurato dal Signore in persona. Il detto di 22,27, «io sono in mezzo a voi come colui che serve», conferma quanto già detto. Lo studioso Bengel osserva che il servizio che il Cristo offrirà ai suoi al suo ritorno è «la più grande promessa contenuta nella Scrittura». - 38 E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell alba, li troverà così, beati loro! ( 38 κὰν ἐν τῇ δευτέρᾳ κὰν ἐν τῇ τρίτῃ φυλακῇ ἔλθῃ καὶ εὕρῃ οὕτως, μακάριοι εἰσιν ἐκείνοι, lett. «e se nella seconda o terza veglia venga e [li] trovi così, beati sono quelli»). Questa seconda beatitudine si ispira alla parabola del portinaio. Si tratta della venuta del padrone e di ciò che trova arrivando. Il solo elemento nuovo è la menzione delle ore grazie al termine specifico φυλακή, «veglia». Si osservi che sono indicate soltanto la seconda e la terza veglia, cioè la metà e forse la fine della notte. Indizio della coscienza del ritardo della parusia? Nel giardino sul Monte degli Olivi solo il Cristo persevererà nella vigilanza (22,39-46). Fino al ritorno del padrone i discepoli dovranno adottare lo stesso atteggiamento e lottare contro il sonno. Vegliare ed essere pronti è innanzitutto sapere quello che significa servire. Senza l'aiuto di Dio, la vigilanza umana è incerta. Significa infine prepararsi anche ad aprire la porta e a essere serviti dal Cristo diacono (v. 37b). 12,39-40: Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. 40 Anche voi tenetevi pronti perché, nell ora che non immaginate, viene il Figlio dell uomo» (τοῦτο δὲ γινώσκετε ὅτι εἰ ᾔδει ὁ οἰκοδεσπότης ποίᾳ ὥρᾳ ὁ 9

κλέπτης ἔρχεται, ἐγρηγόρησεν ἂν καὶ οὐκ ἀφῆκεν διορυχθῆναι τὸν οἶκον αὐτοῦ. 40 καὶ ὑμεῖς γίνεσθε ἕτοιμοι ὅτι ᾗ ὥρᾳ οὐ δοκεῖτε ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου ἔρχεται). - nell ora che non immaginate, viene il Figlio dell uomo (ᾗ ὥρᾳ οὐ δοκεῖτε ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου ἔρχεται). La questione dell'ora diventa rilevante in questi versetti, dove viene unita al tema dell'ignoranza. Gesù ricorda ai discepoli che non conoscono l'ora: οὐ δοκεῖτε, ou dokeĩte, «non pensate». Questa coscienza dell'ignoranza compete alla vigilanza. Fra quanti accettano di non sapere si trovano di nuovo due atteggiamenti diversi: il primo, buono, sta nel vivere gioiosamente della grazia e della libertà; il secondo, cattivo, si lascia prendere dall'inquietudine. La breve parabola insegnata da Gesù ha come protagonista il «ladro» (κλέπτης). La metafora è viva e la parabola è originale di Gesù. La tradizione cristiana si è appropriata di questa parabola, la cui lezione non era esplicita, e l'ha associata subito al giorno del Signore, alla parusia (cf 1Ts 5,2; Ap 3,3; 16,15; 2Pt 3,10). Bisogna quindi essere pronti per la venuta del Figlio dell'uomo. Ignorare l'ora della venuta del Figlio dell'uomo è sapere che ogni ora costituisce un'occasione per amare Dio e il suo prossimo; che in ogni istante può risuonare il suo appello. La prospettiva non è solamente etica, ma anche spirituale. 12,41: Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?» (Εἶπεν δὲ ὁ Πέτρος κύριε, πρὸς ἡμᾶς τὴν παραβολὴν ταύτην λέγεις ἢ καὶ πρὸς πάντας;). - per noi o anche per tutti? (πρὸς ἡμᾶς ἢ καὶ πρὸς πάντας;). Questo intervento di Pietro si trova solo in Luca, e serve ad applicare la parabola alle future guide del popolo, presentando l'immagine dell'amministratore della casa come metafora dell'autorità (cf 9,12-17). Luca si colloca effettivamente a metà strada tra il profetismo paolino e l'istituzione protocattolica. Distingue tra l'insieme dei fedeli e il gruppo dei responsabili, senza attribuire a questi ministri un potere giurisdizionale, poiché ritiene che il compito adempiuto bene testimoni la scelta e la vocazione da parte di Dio. L'imposizione delle mani conferma poi la scelta di Dio, espressa da profeti e accettata dalla comunità riunita. Luca istituisce dunque dei ministeri, ma li definisce come un servizio senza prerogative. 12,42-43: Il Signore rispose: «Chi è dunque l amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? 43 Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così (καὶ εἶπεν ὁ κύριος τίς ἄρα ἐστιν ὁ πίστος οἰκονόμος ὁ φρόνιμος ὃν καταστήσει ὁ κύριος ἐπὶ τῆς θεραπείας αὐτοῦ τοῦ διδόναι ἐν καιρῷ [τὸ] σιτομέτριον; 43 μακάριος ὁ δοῦλος ἐκείνος ὃν ἐλθὼν ὁ κύριος αὐτοῦ εὑρήσει ποιοῦντα οὕτως). - Il Signore rispose: «Chi è dunque l amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù (καὶ εἶπεν ὁ κύριος τίς ἄρα ἐστιν ὁ πίστος οἰκονόμος ὁ φρόνιμος ὃν καταστήσει ὁ κύριος ἐπὶ τῆς θεραπείας αὐτοῦ). Alla testa del popolo di Dio sta il κύριος, il Signore, che sceglie un «amministratore/economo» (οἰκονόμος) che mette «sulla sua servitù» (ἐπὶ τῆς θεραπείας αὐτοῦ). Il responsabile ha la missione di dare (διδόναι) a ciascuno il proprio sostentamento al momento opportuno (ἐν καιρῷ). Queste cure per gli altri diventano una forma di culto reso a Dio. Se l'amministratore assolve al suo incarico con diligenza, viene definito πίστος, pístos, «fidato, capace» e φρόνιμος, phrónimos, «prudente, accorto». 12,44: Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi (ἀληθῶς λέγω ὑμῖν ὅτι ἐπὶ πᾶσιν τοῖς ὑπάρχουσιν αὐτοῦ καταστήσει αὐτόν). La sopravvivenza della fede non dipenderà quindi solo dalla perseveranza dei credenti, ma anche dall'azione assennata dei pastori. In caso di successo la soddisfazione del padrone si esprimerà in termini di ricompensa. 12,45-46: Ma se quel servo dicesse in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, 46 il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l aspetta e a un ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli (ἐὰν δὲ εἴπῃ ὁ δοῦλος έκεῖνος ἐν τῇ καρδίᾳ αὐτοῦ χρονίζει ὁ κύριος μου ἔρχεσθαι, καὶ ἄρξηται τύπτειν τοὺς παῖδας καὶ τὰς παιδίσκας, ἐσθίειν τε καὶ πίνειν καὶ μεθύσκεσθαι, 46 ἥξει ὁ κύριος τοῦ δούλου ἐκείνου ἐν ἡμέρᾳ ᾗ οὐ προσδοκᾷ καὶ ἐν ὥρᾳ ᾗ οὐ γινώσκει, καὶ διχοτομήσει αὐτὸν καὶ τὸ μέρος αὐτοῦ μετὰ τῶν ἀπίστων θήσει). - Ma se quel servo dicesse in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire e cominciasse a percuotere i servi e le serve (ἐὰν δὲ εἴπῃ ὁ δοῦλος έκεῖνος ἐν τῇ καρδίᾳ αὐτοῦ χρονίζει ὁ κύριος μου ἔρχεσθαι, καὶ ἄρξηται τύπτειν τοὺς παῖδας καὶ τὰς παιδίσκας). La seconda parte della parabola fa rovesciare il racconto dalla normalità allo scandalo, e poi al dramma. All'azione diretta della prima parte corrisponde qui un monologo interiore. Il personaggio soccombe 10

alla tentazione. L'abuso di potere per il proprio interesse è sempre un rischio e oggetto di scandalo per chi ha autorità. - a mangiare, a bere (ἐσθίειν τε καὶ πίνειν). I termini corrispondono a ciò che faceva il ricco stolto (12,19). - lo punirà severamente (διχοτομήσει αὐτὸν, lett. «lo taglierà in due», da διχοτομέω dichotoméō). In questo versetto «infedele» (ἄπιστος) è contrapposto al «fidato e prudente» del v. 42; il contrasto è tra chi è «degno di fiducia» e chi «non è degno di fiducia». 12,47-48: Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; 48 quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più (Ἐκεῖνος δὲ ὁ δοῦλος ὁ γνοὺς τὸ θέλημα τοῦ κυρίου αὐτοῦ καὶ μὴ ἑτοιμάσας ἢ ποιήσας πρὸς τὸ θέλημα αὐτοῦ δαρήσεται πολλάς 48 ὁ δὲ μὴ γνούς, ποιήσας δὲ ἄξια πληγῶν δαρήσεται ὀλίγας. παντὶ δὲ ᾧ ἐδόθη πολύ, πολὺ ζητηθήσεται παρ αὐτοῦ, καὶ ᾧ παρέθεντο πολὺ περισσότερον αἰτήσουσιν αὐτόν). - Il servo che, conoscendo la volontà del padrone (Ἐκεῖνος δὲ ὁ δοῦλος ὁ γνοὺς τὸ θέλημα τοῦ κυρίου αὐτοῦ). Questi detti spiegano il grado di responsabilità sulla base della conoscenza. Non hanno un corrispondente né in Marco né in Matteo, ma assomigliano invece alla serie di detti in Lc 16,10-12. Il termine reso con «volontà» è θέλημα thélēma, che significa anche «desiderio». L'espressione πρὸς τὸ θέλημα, pròs tò thélēma («secondo la sua volontà») potrebbe anche essere tradotta «contro la sua volontà». - A chiunque fu dato molto a chi fu affidato molto (παντὶ δὲ ᾧ ἐδόθη πολύ, καὶ ᾧ παρέθεντο πολὺ). I due termini suggeriscono il conferimento dell'autorità: i capi della comunità saranno giudicati più severamente per il posto di responsabilità che occupano. Il discorso di Gesù sulla paura e l'ansietà porta spontaneamente a una considerazione diretta riguardo a «chi o cosa devono temere», ossia il giudizio di Dio che avrà luogo al momento della venuta del Figlio dell'uomo (12,40). Il passaggio a una prospettiva escatologica è anticipato già prima con i riferimenti a «colui che ha il potere di gettare nella Geenna» (12,5) e con la minaccia che il disconoscimento di Gesù porterà a un disconoscimento «davanti agli angeli di Dio» (12,9), nonché l'esortazione a procurarsi «un tesoro inesauribile nei cieli» (12,33). Ora il giudizio escatologico diventa la cornice entro la quale si svolge l'insegnamento. La venuta del Figlio dell'uomo è accennata espressamente solo in 12,40, e solo con l'avvertimento che l'ora della sua venuta sarà improvvisa e imprevedibile «come un ladro nella notte». Ma il tema del «ritorno» e della «venuta» è abbozzato a più riprese in questi detti. Tutta l'esistenza cristiana pertanto è caratterizzata da una continua aspettativa. Il suo adempimento è dato per certo, ma l'ora rimane sconosciuta. È pertanto richiesto un atteggiamento di vigilante allerta, anche se il ritorno del padrone può sembrare «in ritardo» (12,45). Dio giudica gli uomini in qualsiasi momento ed egli sa se hanno distribuito «la razione di cibo a tempo debito», o se invece si sono dati a percuotere i servi. Diverse caratteristiche della composizione di Luca sono estremamente interessanti. Per prima cosa notiamo la bella immagine del padrone che torna a casa, trova i suoi servi tutti svegli che l'aspettano e poi - con un risvolto del tutto inaspettato in un mondo gerarchico - egli stesso si cinge le vesti ai fianchi (potremmo dire «si rimbocca le maniche») e si mette a servire i suoi servi da servo (12,37). Il capovolgimento dei ruoli, così spiegato, è sorprendente e deve essere visto alla luce della dichiarazione di Gesù nell'ultima Cena quando dice: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (22,27). L'autorità qui è espressa in termini di servizio a tavola. Il ruolo dell'amministratore o maggiordomo risponde bene al concetto che Luca ha dell'autorità nella comunità. Il ruolo dell'amministratore è quello di gestire gli altri servi, di vedere che ognuno svolga il suo lavoro, ma anche quello di provvedere ai loro bisogni. L'amministratore è responsabile nei confronti del padrone, ma anche responsabile nei confronti degli altri schiavi. Non può essere fedele all'uno senza rispettare gli altri. È facile scorgere in questo passo non solo un'anticipazione del ruolo che in seguito i Dodici svolgeranno nella comunità di Gerusalemme, ma anche un implicito avvertimento rivolto agli attuali capi del popolo, avvertimento che diventerà molto più chiaro nelle parabole delle mine (19,11-27) e della vigna (20,9-18). Spetta al ministro sorvegliare la distribuzione equa della parola e del pane. Se non ci riesce, il fedele e soprattutto il ministro non ne esce intero, ma verrà tagliato in due e respinto tra gli infedeli. Quelli che abusano dell'autorità saranno severamente puniti. Più grande è il dono, maggiore sarà la responsabilità e più severo il giudizio. 11