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COMMENTO 1-6 Nel proemio del carme Gregorio espone la concezione della natura divina dell uomo in quanto creatura di Dio (cfr. Gen. 1,26-27). Vengono così enunciate le prerogative di Dio-Padre celeste e del dio-padre terreno secondo una precisa costruzione simmetrica. Poiché il padre è considerato dai figli un dio, la similitudine dei versi successivi, che introduce la figura di Cristo genitore e reggitore ottimo di tutte le cose, imposta la relazione tra Cristo-genitore celeste e Vitaliano-genitore terreno: come Cristo governa il mondo secondo i suoi grandi disegni, così anche il padre può disporre dei figli (per il paragone padre celestepadre terreno e il suo sostrato giudaico-ellenistico, nonché stoico, cfr. Regali, Datazione, p. 374 nota 7). L ammissione del potere del padre nei confronti dei suoi figli costituisce una sorta di captatio benevolentiae: il riconoscimento e l accettazione della potestas del genitore che ha portato alla cacciata da casa dell io loquens e del fratello - come apprenderemo nel corso del carme - sono la condizione per avanzare la richiesta di riconciliazione che sembra costituire il fulcro e la causa prima della composizione del componimento (sebbene nella chiusa del componimento la riconciliazione sia considerata quasi impossibile e rimandata ad una prospettiva post mortem, cfr. infra, v. 352 e nota ad loc.). Demoen, Poet, p. 432 ha esteso il proemio fino al v. 10. 1 Ὦ πάτερ Θεὸς θεὸν ἐνθάδ ἔδωκεν Il poliptoto è funzionale a presentare il tema della deificazione dell uomo: Vitaliano (e metonimicamente l uomo in genere) è considerato un dio in quanto creato da Dio: l augurio che Nicobulo jr. rivolge al padre nella chiusa di carm. II,2,4 v. 199 Ἀλλά, πάτερ, σῷ παιδὶ πέλοις θεὸς ἀντὶ βροτοῖο, nell incipit del nostro carme si trasforma in un affermazione e assume i toni di una vera e propria dichiarazione; cfr. Regali, Declamazioni, pp. 533-534; Moroni, p. 167. Ὦ πάτερ Il carme si apre con la stessa invocazione di carm. II,2,4, apostrofe che ricorre numerose volte nel testo (cfr. vv. 62. 75. 81. 87. 135. 146. 161. 172. 229. 258. 285. 292. 294. 332). Θεὸς θεὸν ἐνθάδ ἔδωκεν 67

La dottrina della θέωσις dell uomo, che si fonda, per Gregorio, sull Incarnazione e la passione di Cristo e che colloca il suo fondamento dottrinale nel passo biblico di Gen. 1, 26-27:...καὶ ἐποίησεν ὁ θεὸς τὸν ἄνθρωπον, κατ εἰκόνα θεοῦ ἐποίησεν αὐτόν, trova numerosi loci paralleli nell opera del Nazianzeno. Per un analisi approfondita della dottrina dell ὁμοίωσις θεῷ, che ha, come è noto, radici platoniche ed è stata teorizzata per la prima volta da Iren. Haer. 3,19,1, cfr. Moreschini, Gregorio, in particolare pp. 33-35 e 104-105: «la dottrina dell assimilazione a Dio si incontra più volte in Gregorio e con numerose rielaborazioni, interessanti sul piano letterario, ma sostanzialmente irrilevanti per il contenuto», con particolare attenzione alla mediazione di Origene; Szymusiak, Éléments, passim, p. 27 nota 12; Des Places, pp. 202ss.; Ellverson, pp. 26-27; Girardi, in part. pp. 299-306, che amplia la sua indagine ai tre Cappadoci; Richard, pp. 343ss. e 465ss.; Beeley, pp. 115-122; T. T. Tollefsen, in Børtnes-Hägg, pp. 250-270; Winslow, pp. 171ss.; e non da ultimi θεόω e θέωσις in Lampe s.vv. In carm. I,2,2 vv. 560-561 la deificazione dell uomo è legata alla sua creazione in quanto εἰκὼν Θεοῦ: Εἰ δ οὐ σαρκὸς ἄνασσα λόγου φύσις, ὥς μ ἐθέωσεν. / Εἰκών, τί πλέον ἡμῖν ὁμοίϊα κινυμένοισιν. In I,1,10 vv. 5-6 l accento è posto sull Incarnazione di Cristo: ἐπεὶ γὰρ οὖν ἐγίγνετ ἄνθρωπος θεός, / θεὸς τελεῖτ ἄνθρωπος εἰς τιμὴν ἐμήν; così come in I,1,11 vv. 9-10: τόσον βροτός, ὅσσον ἔμ ἕρδειν / ἀντὶ βροτοῖο θεόν; in I,2,10 vv. 141-142: Θεὸς γενέσθαι τῶν πόνων ἕξει γέρας / Θεὸς θετὸς μέν, ; cfr. anche infra, nota al v. 103. In I,2,14 vv. 91-92 Gregorio insiste ancora sulla duplice natura di Cristo, umana e divina: poiché Cristo ha assunto la μορφή umana, ha di conseguenza, con la sua Passione, reso divino l uomo: Χριστὸς ἑὴν μορφὴν ἡμετέρη κεράσας, / ὥς κεν ἐμοῖς παθέεσσι παθὼν θεὸς ἄλκαρ ὀπάζοι / καί με θεὸν τελέσῃ εἴδεϊ τῷ βροτέῳ; così come ai vv. 14-16 di II,1,1: οἷα Θεός, κρανθεὶς δὲ βροτὸς θνητοῖσιν ἐμίχθης, / ὧν τὸ μὲν ἦες ἄνωθε, τὸ δ ὕστατον ἄμμι φαάνθης, / ὥς με θεὸν τελέσειας ἐπεὶ βροτός αὐτὸς ἐτύχθης (vedi anche vv. 631-633). In I,1,2 vv. 47-48 la deificazione dell uomo viene messa in dubbio soltanto se si nega la divinità di Cristo e lo si riduce a mero uomo: τίς δὲ λόγος, σὲ μὲν ἔνθεν ἀφορμηθέντα, φέριστε, / τοῖς Χριστοῦ παθέεσσι Θεὸν μετέπειτα γενέσθαι. La θέωσις dell uomo si realizza anche attraverso il battesimo, ma senza prescindere dalla figura di Cristo, come afferma Beeley, pp. 153ss., in part. pp. 176-177: «Baptism is the primary and paradigmatic 68

instance of the redivinization that the believer receives through Christ the presence and work of the Holy Spirit through faith, baptism is the actual realization of Christ s divinization in the Church». In I,1,3 vv. 3-4, infatti, l uomo è reso dio dallo Spirito Santo attraverso il battesimo: Πνεῦμα μέγα τρομέωμεν, ὅ μοί Θεός, ᾧ Θεὸν ἔγνων, / ὃς Θεός ἐστιν ἔναντα, καὶ ὃς Θεὸν ἐνθάδε τεύχει (si noti al v. 5 l uso dell avverbio ἐνθάδε che ricorre anche al v. 1 del nostro carme per indicare il mondo terreno, cfr. LSJ s.v.); in I,1,9 v. 85 dove la deificazione dell uomo viene, in un primo momento, negata e riscontriamo lo stesso poliptoto del passo in oggetto, ma con una funzione opposta, poiché Gregorio vuole sottolineare il suo essere creatura per dare la massima valenza salvifica al sacramento del battesimo: νῦν δ οὐ γάρ με θεὸν τεῦξεν Θεός ; in II,1,11 vv. 163-165 Gregorio grida la sua disperazione per il rischio di morire senza aver ricevuto il battesimo al quale è attribuito il potere di rendere divini : ὁ κρυπτὸς ἦν ἔμοιγε φρικωδέστερος. / Καθαρσίων γὰρ οἷς θεούμεθ ὑδάτων / ἠλλοτριούμην ὕδασι ξενοκτόνοις; ancora in II,2,1 v. 30 l attenzione è rivolta allo Spirito Santo: Πνεῦμά θ ὃ πατρόθεν εἶσι, νόου φάος ἡμετέροιο, / ἐρχόμενον καθαροῖσι, Θεὸν δέ τε φῶτα τίθησιν. In II,1,34A vv. 83-84 l uomo è reso dio grazie alla Passione di Cristo: καὶ Χριστοῦ παθέων κλέος ἄφθιτον, οἷς μ ἐθέωσεν, / ἀνδρομέην μορφὴν οὐρανίῃ κεράσας. / Μέλπω μίξιν ἐμήν. La deificazione dell uomo rimanda ad una prospettiva escatologica in I,1,8 vv. 97-100: αὐτὰρ ἐπειδὴ τεῦξεν νέον βροτὸν ἄφθιτος Υἱός, / ὄφρα κε κῦδος ἔχῃσι νέον, καὶ γαῖαν ἀμείψας / ἤμασιν ὑστατίοισι Θεῷ Θεὸς ἔνθεν ὁδεύσῃ (si noti il poliptoto Θεῷ Θεός); e in II,1,72 v. 9 θεὸς θεοῖσι, dove essa si realizza al culmine dell itinerario spirituale dell uomo che si compie solo nel regno celeste. Cfr. ancora or. 1,5 Γενώμεθα ὡς Χριστός, ἐπεὶ καὶ Χριστὸς ὡς ἡμεῖς γενώμεθα θεοὶ δι αὐτόν, ἐπειδὴ κἀκεῖνος δι ἡμᾶς ἄνθρωπος. δούλου μορφὴν ἔλαβεν, ἵνα τὴν ἐλευθερίαν ἡμεῖς ἀπολάβωμεν; or. 29,19: καὶ γενόμενος ἄνθρωπος ὁ κάτω Θεός...ἵνα γένωμαι τοσοῦτον θεός, ὅσον ἐκεῖνος ἄνθρωπος; or. 30,3 Τί δὲ μεῖζον ἀνθρώπου ταπεινότητι γενέσθαι Θεὸν ἐκ τῆς μίξεως ; 30,14: ὑπὲρ τῆς ἐμῆς σωτηρίας, ὅτι μετὰ τοῦ σώματός ἐστιν, οὗ προσέλαβεν, ἕως ἂν ἐμὲ ποιήσῃ θεὸν τῇ δυνάμει τῆς ἐνανθρωπήσεως, 30,21 ἵνα γένῃ Θεὸς κάτωθεν ἀνελθών, διὰ τὸν κατελθόντα δι ἡμᾶς ἄνωθεν; or. 31,4: πῶς ἐμὲ ποιεῖ θεόν, ἢ πῶς συνάπτει θεότητι (cfr. Gallay-Jourjon, Discours 27-31, p. 283 nota 2) e 28-29: εἰ μὲν γὰρ οὐ 69

προσκυνητόν, πῶς ἐμὲ θεοῖ διὰ τοῦ βαπτίσματος Πνεῦμα θεοῦν; or. 40,45; or. 41,9; epist. theol. 101,21: Θεοῦ μὲν ἐνανθρωπήσαντος, ἀνθρώπου δὲ θεωθέντος. Significativa la conclusione a cui giunge Richard, pp. 475-476: «La vocazione dell uomo non è altro che la sua divinizzazione il cui germe si trova nella sua creazione a immagine di Dio, εἰκὼν θεοῦ: l uomo è destinato a divenire, sul piano escatologico, un uomo divinizzato per partecipazione, rimanendo cioè un essere composto sempre da anima e corpo»; cfr. Zehles-Zamora, pp. 245-247; Crimi- Kertsch, p. 225; Domiter, pp. 192-194; Bénin, pp. 515ss.; Moreschini-Sykes, pp. 106-118-245-262; Jungck, p. 159; Piottante, pp. 93-94; Τuilier-Bady, p. 3; Bernardi, Discours 1-3, pp. 78-79; Gallay-Jourjon, pp. 218-219 nota 1 e 332 nota 1; Trisoglio, Rievocazione, p. 360. Per il termine θεός applicato all uomo si veda, infine, Moroni, pp. 209-210. 2 οὐ γεγαὼς γεγαῶτα, καὶ οὐ φθινύθων φθινύθοντα Nell esporre le prerogative di Dio-Padre e del padre-dio, Gregorio si avvale di una studiata struttura simmetrica e antitetica che sfrutta gli stessi termini utilizzando la figura del poliptoto e della litote (cfr. Ruether, pp. 59ss., che analizza l uso di queste figure retoriche nell intero corpus del Cappadoce). Un interessante parallelo si riscontra in carm. I,2,1 v. 413 dove, per definire il rapporto Padre-Figlio, il Nazianzeno si avvale delle stesse espressioni: Ἐκγεγαὼς ἀδέτοιο, καὶ ἄφθιτος οὐ φθινύθοντος, usando la medesima costruzione simmetrica che riscontriamo nel verso in oggetto. In II,1,1 vv. 463-464 Gregorio si definisce dio (si noti il poliptoto Θεῷ θεὸν simile al Θεὸς θεὸν di II,2,3): οὔτι βατὴν πολλοῖσι, Θεῷ θεὸν ἦγ ἀπὸ γαίης / τυκτὸν οὐ γεγαῶτι καὶ ἄφθιτον ἐκ θανάτοιο; in II,2,7 vv. 51-52 l attenzione è centrata sul rapporto creaturale dell uomo rispetto a Dio, per cui l uomo, in virtù del suo essere ad immagine di Dio, non può abbassarsi al culto degli idoli pagani: οὐ θέμις, οὐδ ἐπέοικε Θεοῦ βροτὸν ἐκγεγαῶτα, οὐρανίοιο Λόγοιο καλὴν καὶ ἄφθιτον εἰκώ; cfr. Sundermann, p. 121; Bénin p. 756. L uso della negazione per indicare gli attributi di Dio nasce dalla convinzione che Egli non possa essere pienamente conosciuto, ma definito solamente con ciò che non è, come si legge in or. 28,9: τὸ ἀγέννητον, καὶ τὸ ἄναρχον, καὶ τὸ ἀναλλοίωτον, καὶ τὸ ἄφθαρτον: si tratta della cosiddetta teologia negativa. Per un approfondimento sull argomento 70

si rimanda a Beeley, pp. 90ss.; Moreschini, Introduzione, p. 120; Plagnieux, pp. 276ss.; Špidlík, pp. 35ss. οὐ φθινύθων La litote οὐ φθινύθων esprime una prerogativa divina: Dio è imperituro. Il verbo φθινύθω è forma poetica di φθίω - φθίνω, da cui l aggettivo ἄφθιτος nel significato di imperituro, di cui οὐ φθινύθος è variatio; ἄφθιτος come epiteto di Dio Padre, si trova spesso nella poesia gregoriana. Interessante a questo proposito la forbita definizione di Moreschini-Sykes, pp. 112 e 245: «ἄφθιτος stresses the divinehuman distinction». Cfr. carm. I,1,30 v. 1; I,1,34 v. 14; II,1,2 v. 30; II,1,21 v.1. Ma l aggettivo è anche riferito al Figlio in carm. I,1,2 v. 83; I,1,8 v. 97; I,1,35 v. 8; all anima in I,1,8 v. 3; attributo delle schiere angeliche in I,1,34 v. 6; e connesso all uomo in I,2,9b v. 133 e alla sua immagine nel passo già citato di II,2,7 v. 52. Cfr. infine Christ. pat. 1535, 2044, 2100, 2542 e 1925 dove indica sia il Padre che il Figlio: Ἐξ ἀφθίτου γὰρ ἄφθιτον πεφυκότα. Cfr. G. Harder, φθείρω, in GLNT XIV, coll. 1067-1102. 3 ὥς κεν.ὀπάσσῃ La costruzione è modellata su Hom. Il. 2,364; 6,96. 143. 364; 7,463; 8,508; 9,112; e Od. 2,168; 5,36; 8,467; 15,181; 22,177. Il verso è costruito come un modulo fisso (ὥς κεν.ὀπάσσῃ) e un dativo intercambiabile che occupa la medesima sede metrica, cfr. carm. II,1,19 v. 34 ὥς κεν ἀριστεύσαντι γέρας καὶ κῦδος ὀπάσσῃς; e II,1,42 v. 17 Ὥς κεν ἀεθλεύσαντι γέρας καὶ κῦδος ὀπάσσῃς. È simile in II,2,1 vv. 339-340 ὥς κεν ὀπάσσῃ / θνητοῖς ; Simelidis, pp. 191-192. Per l uso del verbo ὀπάζω in Gregorio Nazianzeno, cfr. Domiter, p. 192, comm. a I,2,14 v. 91. Nel nostro carme lo stesso verbo viene ripreso anche ai vv. 147 e 268. Per la iunctura di ὀπάζω con κῦδος cfr. Hom. Il. 7,205; 8,141; 12,255; 14,358; 15,327; 16,730; 17,566; 21,570; Od. 3,57; 15,320; Apoll. Rhod. 1,511; 1,345; Hes. Th. 433. 438; Aristoph. Eq. 200 e ancora Greg. Naz. carm. I,1,27 v. 61; I,2,2 v. 388; II,1,19 v. 90; II,1,95; II,2,1 v. 289; Anth. Pal. 8,80,5. ἐπιχθονίοισι L uso di questo aggettivo per indicare l uomo, già presente nella grecità classica, si spiega, oltre che per necessità metriche, anche perché esso sottolinea la materialità dell uomo e amplifica la portata della sua deificazione: cfr. LSJ s.v.; Richard, p. 298. γέρας καὶ κῦδος 71

Il primo termine deve essere inteso nell accezione di dono, privilegio. Per comprendere in che cosa consista il dono che Cristo concede ai mortali cfr. carm. I,1,3 vv. 52-53, in cui appare chiaro che il γέρας coincide proprio con la θέωσις dell uomo, the gift of deification : τὸ δ ἂν ἶσον ἔχοι βροτὸς ὅστις ἀλιτρός, / αὐτὸς ἑὴν θεότητα, Θεοῦ γέρας, ἄνδιχα τέμνων; cfr. Moreschini-Sykes, p. 131. In I,2,9a v. 84 il Θεοῦ γέρας si traduce nella possibilità di sollevare la pesante carne verso l alto fino alla contemplazione di Dio, θεωρία, dono gratuito col quale Dio viene in soccorso all uomo e al suo desiderio di innalzarsi, ma si veda anche I,2,9b v. 6 μεγάλοιο θεοῦ τόδε δῶρον (la θεωρία della Trinità è rimandata ad una prospettiva escatologica, dopo il giudizio universale, in or. 16,9). Cfr. Crimi, Virtù, p. 16; Palla-Kertsch, pp. 170-171; per I,2,10 v. 142 τῶν πόνων ἕξει γέρας, il commento di Kertsch, p. 225; Anth. Pal. 9,738,2 ὄπασσε γέρας. Per aver acquisito questa condizione privilegiata, l uomo riceve anche la gloria (per κῦδος concesso all uomo cfr. Greg. Naz. carm. I,1,8 v. 98; I,1,9 v. 84; I,1,27 v. 61; I,2,1 vv. 166 e 349; I,2,2 v. 388; II,1,13 v. 157; II,1,45: II,2,7 v. 186; Sundermann, pp. 195-196; Zehles-Zamora, pp. 157 e 171) da parte di Cristo: γέρας καὶ κῦδος costituiscono, infatti, due termini inscindibili legati alla sfera dell oltre : il premio e la gloria, cioè, rappresentano la salvezza e la remissione dei peccati grazie all Incarnazione e alla passione di Cristo, il ritorno allo stato originario dell uomo, εἰκὼν θεοῦ, attraverso la purificazione e l illuminazione, e l onore che deriva da questa privilegiata condizione, che i protoplasti già possedevano, ma che hanno perso in seguito al peccato originale: φάος καὶ κῦδος ὀλέσσας (I,1,4 v. 47). Cfr., per il tema, Meyendorff, p. 187 : «L Incarnazione è una precondizione della glorificazione finale dell uomo, la quale è anche la glorificazione dell intera creazione da intendere, naturalmente, in senso escatologico» (vedi anche Beeley, p. 119). 4 ὡς γὰρ Lo stesso incipit di verso in Hom. Il. 7,53; 8,477; 24,68. 525; Od. 5,41; 8,79; 23,251; Hes. Theog. v. 389; Christ. pat. 753. 1282; e Greg. Naz. carm. I,1,3 v. 24; I,2,1 v. 546 (ὡς γὰρ ὁμοῦ); II,2,7 vv. 184. 298. γενέτης Il termine γενέτης è generalmente attribuito, dal Cappadoce, a Dio Padre, cfr. carm. I,1,1 v. 33; I,1,2 v. 28; I,2,1 v. 26 e 237 (in quest ultimo passo si riscontra la stessa 72

iunctura, γενέτης πάντων, di II,2,3: cfr. Sundermann, pp. 39-40). In I,1,2 v. 19 esso è riferito al Logos di Dio, mentre in I,2,34 v. 54 si attribuisce al genitore-uomo in generale; in II,1,90 v. 1, così come in Anth. Pal. 8,17,4; 77,1; 83,4 indica Gregorio il Vecchio; in II,2,5 v. 86 rimanda ad Anchise padre di Enea; in II,2,3 ricorre ai vv. 268 e 297 per indicare il destinatario, Vitaliano. Cfr. anche Nonn. Par. 1,53; 3,156; 5,63; 6,156; 8,117; 10,42; 12,194; 13,130 etc. νομεΰς Insieme a γενέτης svolge proletticamente la funzione di predicativo di Χριστός del verso successivo (il verbum è tradizionale epiteto di Cristo, anche con valenza iconografica, cfr. G. Otranto, Tra letteratura e iconografia: note sul Buon Pastore e sull'orante nell'arte cristiana antica [II-ΙΙΙ secolo], Annali di Storia dell'esegesi 6, 1989, pp. 15-30). È usato in carm. II,1,45 v. 218 (= Anth. Pal. 8,17,2) per designare Gregorio il Vecchio: ποιμὴν, νῦν δὲ πατὴρ, καὶ νομέων νομέας. Più ricorrente, ma soprattutto nelle opere in prosa del Cappadoce, il sinonimo biblico ποιμήν: per le sue attestazione in poesia cfr. II,1,1 v. 629, quale epiteto di Cristo; II,1,11 v. 56 e Anth. Pal. 8,18,3 (epiteto di Gregorio il Vecchio); ancora II,1,11 vv. 596. 858. 924. 1070, II,1,12 vv. 81. 747, II,1,23 v. 23, II,1,30 v. 189, II,1,68 vv. 47. 59. 101 (per designare i vescovi e/o i sacerdoti che guidano le comunità cristiane, così come Gregorio stesso); etc.; cfr. J. Jeremias, ποιμήν, in GLNT X, coll. 1193-1236; B. Porter Lawerence, Sheep and shepherd: an ancient image of the Church and contemporary challenge, Gregorianum 2001, 82, pp. 51-85, in part. 72-74. τε φέριστος Per questa clausola cfr. Greg. Naz. carm. I,1,18; I,2,1 v. 494; I,2,29 v. 189; Anth. Pal. 8,140,5 5 Χριστὸς ἄναξ Come già sottolineato da Moroni, p. 75 nota a carm. II,2,5 v. 3 e Bénin, p. 502 nota a II,1,1 v. 1, il termine ἄναξ come epiteto della divinità è mutuato da Omero. Degna di nota la fonte biblica rintracciata da Piottante, p. 108, in Gv. 18,37 dove nel colloquio tra Cristo e Pilato risalta il termine βασιλεύς, re, che la studiosa intende come sinonimo di ἄναξ, (cfr. anche BP, p. 327). La iunctura ricorre altresì nel nostro carme, nella stessa posizione metrica, ai vv. 126. 222. 293. Cfr., inoltre, carm. 1,1,9 v. 52; I,1,18 v. 12; I,1,20 v. 2 (incipit); I,1,22 v.11 (incipit); II,1,19 vv. 1 e 9; II,1,34B v. 4; 73

II,1,45 v. 223; II,1,55 v. 7 (incipit); II,2,1 v. 272 (incipit); Anth. Pal. 8,141,3 (incipit). 142,6; e, similmente 1,1,2 vv. 25-26 ἄνακτα / Υἱὸν Πατρὸς ἄνακτος ; I,1,11 v. 1-3: ἄνακτα Λόγον. Per la disamina degli epiteti di Cristo si rimanda a Moroni, pp. 198-199. μεγάλοισι νοήμασι Il termine νόημα può essere inteso nel senso di disegno, consiglio, pensiero, cfr. LSJ s.v. e Lampe s.v. Nel nostro carme esso è legato all operato di Cristo come pastore del cosmo. In carm. I,1,1 v. 34, oltre agli epiteti di κοσμοθέτης e νωμεύς, Cristo è definito proprio Πατρὸς νόημα; in I,1,3 v. 87 e I,2,1 v. 38, νόημα indica il pensiero-disegno comune della Trinità: Τριάδος ἓν δὲ νόημα; in I,1,4 v. 68 ritroviamo μεγάλοισι νοήμασι nella stessa sede metrica di II,2,3 in relazione alla potenza creatrice di Dio: Κίννυτο καὶ κόσμοιο τύπους οὒς στήσατο λεύσσων / οἶσιν ἐνὶ μεγάλοισι νοήμασι κοσμογόνος νοῦς, e al v. 100 si afferma l unicità dell atto creatore di Dio per il mondo sensibile e quello intellegibile: πρῶτος δ ὑστάτιός τε Θεοῦ μεγάλοιο λόγοισι; nel passo cit. di I,1,5 v. 36, così come in I,2,1 v. 53, νοήμασι è inserito in un ragionamento affine a quello di II,2,3; cfr. infine il passo cit. di I,1,9 v. 6 che ha δόγμασιν. Il termine νόημα si riscontra ancora in I,2,33 dove i pensieri sono divini, θείοις νοήμασι, in quanto indirizzati e ispirati a / da Dio; così come in I,2,1 vv. 160-161; II,1,1 v. 195 e II,1,28 v. 3 vengono definiti οὐρανίοισι; in I,2,1 v. 542, II,1,10 v. 33 e II,1,17 v. 35 sono invece puri, καθαροῖσι; in II,1,39 v. 16, in opposizione ai passi precedenti, si tratta di pensieri terreni, κάτω νοήμασι; mentre in II,1,50 v. 11 e II,1,55 v. 17 sono quelli oscuri del demonio: ἀνδροφόνοισι δνοφεροῖσι; infine in or. 4,115 in chiave accusatoria e polemica, i μεγάλα νοήματα sono rivolti a Zeus dal cantore Orfeo; cfr. Richard, p. 236 nota 65; Bénin, p. 632; Sundermann, p. 170; Simelidis, p. 166. κόσμον ἑλίσσων Cristo reggitore imprime al mondo un moto circolare espresso dall uso di ἑλίσσω, da intendere, in funzione causativa, far volgere intorno, far girare (Caillau, infatti, usa il verbo torqueo), cfr. LSJ s.v. Stessa espressione, κόσμον ἑλίσσων, si riscontra in carm. I,1,3 v. 43; nel già citato passo di I,1,6 al v. 21 il verbo si trova subito dopo l assunto del governo di Dio sul mondo: σοφῶς ἑλίσσων καὶ πλέκων.., passo in cui κόσμον è sottinteso, ma viene esplicitato da Caillau nella traduzione 74

latina in PG: Nobis autem unus Deus regit hanc universitatem, sapienter volvens et nectens ; in I,1,6 vv. 20-21, l espressione è strettamente legata all idea che il Logos governi il mondo e lo muova: ἡμῖν δ ἄγει μὲν εἷς Θεὸς τὸ πᾶν τόδε, / σοφῶς ἑλίσσων καὶ πλέκων, ὡς ἂν θέλῃ; così come in II,1,42 vv. 18-19: Καὶ γὰρ ἅπαντα κόσμον ἅγεις, μεγάλοισι λόγοις κρυπτοῖσιν ἑλίσσων (si noti come μεγάλοισι λόγοις corrisponda a μεγάλοισι νοήμασι di II,2,3 v. 5). Espressione simile si ritrova ancora in carm. II,2,7 vv. 302-303, dove è presente la metafora della navigazione secondo la quale Cristo è timone di tutte le cose: οἴακα παντός, / ᾧ κόσμον μεγάλοιο Θεοῦ Λόγος αἰὲν ἑλίσσει: cfr. Richard, pp. 233-234 che sottolinea, in Gregorio, l uso del termine κόσμος per indicare le monde sensible ; Moreschini-Sykes, p. 128. Cfr. ancora or. 28,29 Τίς περιήγαγεν οὐρανόν; carm. Ι,1,5 v. 17 οὐρανὸν ἄλλον ἑλίξεις, con accezione diversa rispetto al passo in questione; I,1,7 v. 3 ἀκτὶς ἠελίοιο πολύχροον ἶριν ἑλίσσει; ma soprattutto I,1,9 v. 98 dove Gregorio descrive il movimento ciclico delle stagioni e quindi il trascorrere del tempo come un moto circolare: ἅ θ ὥρια κύκλος ἑλίσσει, e I,2,1 ὤρας ἑλίσσειν. In I,2,9a v. 15 Gregorio volge la mente : Τῇ καὶ τῇ νόον ὠκὺν ἐπὶ στήθεσσιν ἑλίσσω; così come in I,2,14 v. 15 il suo intelletto si attorciglia in ragionamenti: ἑλισσομένοιο νόοιο. In II,1,11 v. 1945, ritorna l idea di Dio che imprime un moto circolare alla vita dell uomo: Θεός, / πολλαῖς ἑλίσσων τὴν ἐμὴν ζωὴν στροφαῖς: cfr. Richard, p. 504 nota 41; Schawb, p. 87; Palla-Kertsch, p. 134; Jungck, p. 230. Un interessante parallelo si rileva, infine, in Eus. Const. or. s.c. 18,2 (PG 20,1289) dove nell acrostico di Cristo in corrispondenza dell omicron di Θεοῦ si legge: οὐρανὸν εἱλίξει. 6 Ὥς ῥα Per questo nesso incipitario cfr. Hom. Il. 11,419. 482; 12,307; 13,125. 201; 15,365; 18,163 e Od. 20,16; hymn. in Ven. 50; Ps.-Hes. Sc. 44; Greg. Naz.; carm. 1,2,1 v. 283. 506; Anth. Pal. 8,85,2; infra, v. 131 οἷς τεκέεσσι Il dativo eolico τεκέεσσι(ν), spesso accompagnato dall aggettivo possessivo, in Hom. Il. 3,160 ἡμῖν τεκέεσσι; 4,162; 12,222 e Od. 8,525; 14,244; Τheocr. 6,24; Ibyc. fr. 166, 24; Apoll. Rhod. 2,483; 3,694. Gregorio Nazianzeno usa questa forma negli epigrammi, cfr. Anth. Pal. 8,30,3. 36,2. 119,1; carm. I,1,9 v. 12; I,2,1 v. 127; I,2,2 v. 152; II,1,43 v. 11; II,2,1 v. 159: οἷς τεκέεσσι πατὴρ (stessa iunctura di II,2,3 v. 6); II,2,4 vv. 75

21. 24. 147. 169; II,2,6 vv. 94. 109; II,2,7 v. 79; cfr. anche infra, vv. 11. 38. 58. 76. 82. 163 (stessa iunctura τεκέεσσι πατὴρ) 228. 294. 312. 314. 337. 347. Il Cappadoce, sull esempio epico, usa frequentemente anche τέκεσσι(ν), cfr. Hom. Il. 5,71 e 535; 13,176; 15,551; 16,265; 17,133; 22,453 e Od. 2,178; 8, 243; 10,61; Ps.-Hes. Sc. 247; Greg. Naz. carm. I,2,1 v. 228; II,2,4 v. 29; II,2,5 vv. 26. 41. 239. Cfr. Chantraine, Grammaire, pp. 204ss.; Zehles-Zamora, p. 100. πατὴρ θεός L accostamento dei due termini, usato per apostrofare generalmente Dio Padre, in questo contesto indica invece il padre terreno, Vitaliano, che nel v. 1 è definito appunto θεός. Il richiamo al verso incipitario fungerebbe da clausula, secondo il principio della Ringkomposition, alla sezione proemiale del carme (vv. 1-6). 6-8 Breve sezione di raccordo che funge da preludio al discorso vero e proprio introdotta dall apostrofe Ἀλλ ἐπάκουσον. La richiesta di ascolto che l'io loquens rivolge al padre si riveste dei contorni di una invocazione a Dio esplicitata dall uso del verbo ἐπακούω, giacché la propensione all ascolto che il figlio chiede al genitore è paragonata a quella che Dio ha verso ogni uomo ed è chiarita dal conclusivo: καὶ τὸ Θεοῦ μεγάλοιο (v. 8). La costruzione ἄλλά con l imperativo costituisce, già nella letteratura classica, una formula di transizione, ma anche di introduzione ad una preghiera, cfr. J. Denniston, Greek particles, Oxford 1954, pp. 14-16. 6 Ἀλλ ἐπάκουσον ἐπακούω ricorre spesso nell A.T. per indicare l atteggiamento di ascolto di Dio, cfr. Gen. 16,11; 25,21; 30,6; 17,22; 35,3; Prov. 15,29; Ps. 16,6; 18,2; 19,2; 80,8; 98,8; 117,21 e 28; 118,26; Is. 49,8; 1Reg. 7,9; 2Reg. 21,14; 24,25; e, come nel nostro caso, un invocazione a Dio, cfr. 3Reg. 18,36-37; Ps. 19,10; 59,7; 64,6; 68,14 e 18; 85,1; 107,7; 118,145; 137,3; 142,1; ripreso da Gregorio anche in or. 29,20 ἀλλ ἑπακούει; infra, v. 122; cfr. Lampe s.v. Per la costruzione di (ἐπ)ακούω con μῦθον cfr. le simili espressioni di carm. I,2,29 v. 127 ἐμῶν δ ἐπέων ἐπάκουσον; ΙΙ,2,5 vv. 6-7, ἀλλ ἐσάκουε / μῦθον ἐμόν (richiesta che, per converso, il padre rivolge al figlio nello scambio epistolare costituito dai carmi II,2,4-5); II,2,7 v. 178 ἐμῶν μύθων ἐπάκουσον; ma anche Hom. Il. 9,100 e Od. 17,584 ἔπος ἐπακοῦσαι; 19,98 ἔπος 76

ἐπακούσῃ; 24,262 ἐπακοῦσαι ἐμὸν ἔπος; Τeogn. 2,1321 τῶνδ ἐπάκουσον ἐπῶν e 2,1366 ἐπάκουσον ἔπη; Soph. Phil. 1417 ἐμῶν μύθων ἐπάκουσον; Knecht, p. 87. 7 μῦθον ἐμὸν ἄριστον Il valore di questa iunctura, in iperbato al fine di dare enfasi alle singole componenti poste rispettivamente all inizio e alla fine del verso quasi ne fossero la chiave e il sigillo, apre una prospettiva interessante per la concezione del carme: con questa espressione, infatti, è come se l io loquens (ma in realtà Gregorio) si auto-elogiasse. Demoen, Poet, pp. 439-440 ha avanzato un interpretazione del carme che fa propria l idea dell auto-celebrazione: secondo lo studioso, cioè, Gregorio sarebbe conscio delle sue ottime competenze letterarie, coscienza che trasuderebbe anche da infra, vv. 198-199: ἀοιδῆς / ἴδρις ἐὼν, in cui si può sentire l eco del verso in oggetto. Minimizzando la realtà della vicenda che avrebbe solo ispirato la composizione, Demoen considera il carme un occasione con la quale il Cappadoce ha la possibilità di dimostrare la sua maestria retorica in un contesto diverso da quello ecclesiastico-pastorale, cioè nel genere epidittico al quale lo studioso ascrive il carme II,2,3: «At the extradiegetical level, then, this poem is not a specimen of deliberative rhetoric but rather a piece of epideictic rhetoric. Gregor was a self-conscious literary artist (with this test) he demonstrated his literary and rhetorical mastery». È interessante l uso di μῦθος come sinonimo di λόγος, in conformità al codice epico. Μῦθος indica dunque, in questo caso, il discorso che l io loquens sta rivolgendo al destinatario. Demoen, Exempla, pp. 213ss. analizza i significati del termine suddividendoli in due classi, a) Word(s)- b) Story, fiction, e sottolinea come la prima accezione si riscontra soprattutto in poesia. Egli riporta, inoltre, una serie di passi tratti dalla produzione poetica del Nazianzeno in cui si riscontra il termine nelle varie accezioni, segnalando anche diversi luoghi del nostro carme, come, ad es., v. 51 μῦθον nel senso di plot, ὑπόθεσις, argumentum ; v. 161 μῦθον come speaking as act ; v. 338 μῦθον pronounced words, speech/oration, come al v. 7 (passo non segnalato). Cfr. LSJ s.v.; nonché G. Stälin, μῦθος, in GLNT VII, coll. 537-630. θείοισιν ἐνὶ σπλάγχνοισι Le viscere vengono definite divine, sante poiché il padre è chiamato dio, secondo il parallelo Padre celeste - padre terreno e la concezione della deificazione 77

dell uomo. Sembra opportuno considerare, in questo contesto, il termine σπλάγχνον nel senso di viscere di misericordia : esso, infatti, in ambito cristiano (soprattutto nel N.T. e negli scritti paolini) ha ampliato l accezione metaforicopsicologica di sentimenti e sede dei sentimenti, comprendendo anche il significato di misericordia divina, cfr. H. Köster, σπλάγχνον, in GLNT XI, coll. 903-934. Simili espressioni, nella poesia del Cappadoce, si riscontrano a proposito dell Incarnazione di Cristo, cfr. carm. Ι,2,1 v. 152 ὅτ ἐν σπλάγχνοισι μίγη Θεὸς ἀνδρομέοισιν e vv. 334-335 καθαροῖσι ἀνδρομέοισιν σπλάγχνοισιν, in cui si dice che Cristo ha assunto la forma mista, cioè umana e divina insieme; II,1,13 v. 33 Κῦδος ἑὸν θνητοῖσιν ἐνὶ σπλάγχνοισι κενώσας; II,1,19 v. 70 Θεὸν ἀνδρομέοισιν ἐνὶ σπλάγχνοισι παγέντα; II,2,7 v. 19, ἐν σπλάγχνοισιν θέωσεν, in riferimento allo Spirito Santo che divinizza Cristo nelle viscere della Vergine; cfr. Sundermann, p. 84; Simelidis, p. 205. In I,1,9 v. 46 σεμνοῖς ἐν σπλάγχνοισιν, le viscere sono quelle della Madre in cui Cristo si è incarnato; la stessa iunctura in I,2,1 v. 147. Cfr. anche Greg. Nyss. hom. opif. ἀναπνευστικῶν σπλάγχνων; Eus. p.e. 4,19,2-4 σπλάγχνων ζῴων; Ath. h. Ar., 60,3 ἀνελεήμονα σπλάγχνα; Ioh. Chrys. hom. 2 in Phil. σπλάγχνα θερμὰ καὶ διάπυρα.σπλάγχνοις θερμοτέροις (PG 62,189); comm. in Gal. ἀποστολικὰ σπλάγχνα (PG 61,660); hom. 14 in Eph. σπλάγχνα τὰ πνευματικὰ (PG 62,101). Per il termine inteso in senso letterale cfr. Greg. Naz. carm. II,1,17 v. 53 ζοφεροῖσιν ἐνὶ σπλάγχνοισιν sono quelle del cetaceo in cui fu intrappolato Giona; Greg. Nyss. or. catech. 37,11 ἀνθρωπίνων σπλάγχνων. 8 καὶ τὸ Θεοῦ μεγάλοιο La propensione all ascolto che il figlio chiede al padre con l invocazione ἀλλ ἐπάκουσον viene paragonata a quella di Dio proprio con questa espressione. La nota esplicativa di Caillau in PG conferma questa interpretazione: Quasi dicat: Non est quod alienum a tua dignitate, atque auctoritate putes, aurem nobis praebere. Nam ne ipse quidem Christus Deus verus supplices hominum preces aspernatur. Che μέγας sia attributo della divinità appare chiaro sin da Omero che usa la iunctura μεγάλοιο Διὸς in Il. 5,721; 6,304; 7,24; 9,502 etc.; Od. 4,27; 6,151; 11,255; 16,403etc.; Hes. Theog. 81, 708, 952 e Op. 4; Apoll. Rhod. 1,1315; 2,289; 3,158, ripresa da Nonn. Dion. 20,367; 44,162. Per la iunctura Θεοῦ μεγάλοιο in Gregorio cfr. carm. I,1,2 v. 7; I,1,4 vv. 1. 6. 100; I,1,7 v. 57; I,1,8 vv. 4. 126; I,1,9 vv. 25. 83; I,1,19 v. 1; I,2,1 vv. 45. 284. 722; I,2,2 vv. 78

73. 450. 645; I,2,9A vv. 20. 76; I,2,9B vv. 6. 12. 52; I,2,29 v. 321; I,2,31 v. 35; II,1,1 vv. 100. 400. 465; II,1,13 v. 2; II,1,34A v. 101; II,1,42 v. 31; II,1,45 v. 9; II,1,50 v. 83; II,1,84 v. 15; II,2,2 v. 361; II,2,5 v. 42; II,2,6 v. 89; II,2,7 vv. 47. 82. 299. 303; ma anche Clem. Alex. prot. 4,50; Sundermann, p. 64; Palla-Kertsch, p. 136. 8-10 Il significato profondo dell Incarnazione e della passione di Cristo come espressione del grande amore di Dio-Padre nei confronti dell uomo apre il discorso vero e proprio: θεὸς βροτὸν οὐκ ἀθερίζει, / ᾧ θάνεν, ὃν συνέγειρε, καὶ ᾧ θεὸς ἵξεται αὖτις. La prospettiva escatologica del giudizio universale, ultimo compimento dell azione del Figlio nel mondo, suona come una minaccia: è come se il figlio ammonisse il padre in vista del giudizio finale, ἵξεται ὑστατίοισιν ἐν ἤμασι πάντας ἐλέγχων (v. 10). 8 Θεὸς βροτὸν Per l accostamento, già frequente nell epica, cfr. Hom. Il. 5,129 θεοὶ βροτὸν; Hes. fr. 30 θεοῖς βροτὸν; Theocr. 20,20. In Gregorio Nazianzeno l accostamento dei due termini assume una valenza significativa e per niente ossimorica. Il rapporto Diouomo, infatti, nasce da una condizione speciale che si realizza in un primo momento nella creazione dell uomo come εἰκὼν θεοῦ e si completa con l Incarnazione di Cristo che assumendo la forma umana rende divino l uomo. In particolare rileviamo che, nell accostamento dei due termini, βροτός oltre ad essere, come è naturale, applicato all uomo (cfr. carm. I,1,4 v. 95 θεοῦ βροτός; I,1,9 v. 5 Θεὸς βροτόν; I,1,11 v. 10 βροτοῖο θεόν; I,2,9b v. 52 θεοῦ βροτός [ma anche v. 23 Χριτοῖο βροτός]; II,1,13 v. 175 Χριστὸς, βροτός; II,2,1 v. 339 βροτῷ θεός; II,2,3 v. 83 θεῷ βροτόν; II,2,7 v. 51 Θεοῦ βροτόν) è anche riferito a Dio-Cristo che ha assunto la forma umana: cfr. carm. I,1,2 vv. 62. 67. 72; I,1,9 v. 52 βροτὸς καὶ Χριστός; I,1,10 vv. 23 θεὸς τε καὶ βροτὸς, 27 e 54 Λόγος βροτόν; I,1,11 vv. 3 Λόγον βροτόν, 9, 27; I,2,1 v. 154 βροτὸς καὶ Χριστός; Ι,2,2 vv. 214. 455; II,1,1 v. 14 θεός, βροτός; II,1,13 v. 34; II,1,19 v. 88; II,1,30 v. 168 θεοῦ μέγαν βροτόν; II,2,7 v. 181; ma anche I,1,9 v. 48 Θεὸς θνητός; I,1,10 v. 5 ἄνθρωπος θεὸς; I,2,1 v. 149 θεὸς θνητός; Christ. pat. 582; Zehles- Zamora, p. 217; Bénin, pp. 515-516; Simelidis, p. 213. Per gli appellativi che fanno riferimento alla natura umana di Cristo cfr. or. 30,21, così come per θεός applicato all uomo vedi supra, comm. al v. 1. 79

οὐκ ἀθερίζει Dio nutre un sentimento di amore e non di trascuratezza o disprezzo verso l uomo. L idea che Dio ami le sue creature e abbia riguardo per tutte si ritrova in Sap. 11,24: ἀγαπᾷς γὰρ τὰ ὄντα πάντα καὶ οὐδὲν βδελύσσῃ ὧν ἐποίησας οὐδὲ γὰρ ἂν μισῶν τι κατεσκεύασας. Ma la possibilità che Dio odi è contemplata nel V.T., dove in particolare il suo odio è rivolto all ἀσέβεια, ἀδικία e ὑπερηφανία e a coloro che le praticano, ma non è presente nel N.T.: cfr. O. Michel, μισέω, in GLNT VII, coll. 321-352 e infra, v. 16. Un espressione simile a quella del passo in questione si rileva in carm. II,2,7 v. 216 οὐδὲ γὰρ ὡς στυγέων τεῦξε βροτὸν e in Christ. pat. 827 dove Cristo chiede alla Theotokos: μηδένα βροτῶν στύγει. Nel N.T. l amore di Dio verso l uomo si esplica nella venuta di Cristo sulla terra per salvare l uomo: Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito (Gv. 3,16). La convinzione che l espressione più grande dell amore e della benevolenza di Dio verso l uomo si attui nell Incarnazione e nella passione di Cristo ( Egli ha assunto la forma umana per salvare l uomo dal peccato ) è espressa dal Nazianzeno in or. 29,19: ἡ δὲ ἦν τὸ σὲ σωθῆναι τὸν ὑβριστήν ; or. 30, 2 Τίς δὲ τῆς ἀνθρωπότητος, ἣν δι ἡμᾶς ὑπέστη Θεός, αἰτία; Τὸ σωθῆναι πάντως ἡμᾶς e 3 Γέγονε γὰρ ταῦτα ἐνεργείᾳ τοῦ γεννήματος, εὐδοκίᾳ δὲ τοῦ γεννήτορος; carm. I,1,9 v. 8: ἀλλ ὅδ ἐμῆς λόγος ἐστὶ Θεοῦ φιλέοντος ἀρωγῆς; e I,1,2 vv. 82-83, χθονίην μορφὴν / ἣν, σοί γ εὐμενέων, μορφώσατο ἄφθιτος Υἱός, assunti che richiamano il v. 9 di II,2,3. In Christ. pat. 1763 la massima espressione dell amore di Dio si attua nella resurrezione che coinvolge anche l uomo: οὕτως ἔσεσθαι τοὺς Θεῷ φιλουμένους. 9 ᾧ θάνεν, ὃν συνέγειρε, ᾧ θεὸς ἵξεται αὖτις Un verso simile si rileva in carm. I,1,2 vv. 78-79 νεκύεσσιν ἐμίχθη, / ἔγρετο δ ἐκ νεκύων, νεκροὺς δ ἀνέγειρε πάροιθεν; II,1,38 vv. 39-40 Σήμερον ἐκ νεκύων Χριστὸς μέγας, οἷσιν ἐμίχθη, / ἔγρετο καὶ θανάτου κέντρον ἀπεσκέδασε; II,2,7 v. 174 Καὶ θάνε, καὶ νεκύεσσι μίγη, καὶ ἀνέδραμεν αὖθις. Per Cristo che muore per gli uomini cfr. carm. ΙΙ,1,19 v. 87 οὔτ ἀγαθοῖσι μόνοισι θάνες, Θεός ; II,1,38 vv. 43-44 μερόπεσσιν /...οἶσι θάνεν e or. 19,13 τῶν ἀνομιῶν ἡμῶν ἤχθε εἰς θάνατον; infra, v. 102. La risurrezione è concepita come un evento che unisce Cristo e l uomo insieme (συν- ), un dono frutto dell amore di Dio, come si legge in Eph. 2,4-6: ὁ δὲ θεὸς πλούσιος ὢν ἐν ἐλέει, διὰ τὴν πολλὴν ἀγάπην αὐτοῦ ἣν ἠγάπησεν ἡμᾶς, 80

καὶ συνήγειρεν καὶ συνεκάθισεν ἐν τοῖς ἐπουρανίοις ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ, grazie al quale l uomo è salvato dal peccato: si scopre proprio con Paolo il nuovo modo di essere in cui i credenti sono entrati insieme col Cristo ; cfr. Moreschini-Sykes, pp. 111-112; Piottante, p. 153; Simelidis, p. 213; Lampe s.v. συνεγείρω; A. Oepke, ἐγείρω in GLNT III, coll. 17-32; Mossay, pp. 169-209. Per l espressione ᾧ θάνεν, ὃν συνέγειρε cfr. anche carm. I,2,2 vv. 456 καὶ θάνε, καὶ συνέγειρε e 566 Xριστῷ συνθανέειν συνεγερθῷ; II,1,60 v. 9 ἐμοὶ Θεὸς τέθνηκε, κ αὖθις ἔγρετο; Zehles- Zamora, pp. 202-203 e 248-249. 9-10 ἵξεται αὖτις.ἵξεται L anafora usata per collegare i vv. 9-10 sottolinea e amplifica la portata della venuta di Cristo negli ultimi giorni per giudicare l uomo; cfr. Ruether, p. 62. Si tratta, chiaramente, di una prospettiva escatologica espressa con la forma ἵξεται che sposta il piano del discorso dal passato (θάνεν-συνέγειρε) al futuro. 10 ὑστατίοισιν ἐν ἤμασι Per questa iunctura che colloca temporalmente il giudizio di Cristo cfr. carm. I,1,5 v. 41; I,1,8 v. 99; II,1,13 v. 171; II,2,5 vv. 175-176, ma anche I,2,1 v. 456 ὑστατίοισι χρόνοισι; Moroni, p. 255; Sundermann, p. 137. πάντας ἐλέγχων L azione giudicatrice di Cristo alla fine dei giorni, con i suoi fondamenti scritturistici (tra gli altri, Is. 10,3; Mt. 25,31-46; 2Tm. 4,1; 1Pt. 4,5) è ampiamente sviluppata dal Cappadoce. Il verbo ἐλέγχω, da intendersi nell accezione di to examine (cfr. Lampe s.v.), è usato sia nell Antico che nel Nuovo Testamento e reca in sé una sfumatura di significato che inserisce nell azione del giudizio di Dio il concetto di disciplina e di educazione, l idea di correzione che allontana dal peccato e che non si riduce soltanto ad una mera azione punitiva ma che, essendo frutto dell amore di Dio per l uomo, mira a indurre alla penitenza: cfr. Ebr. 12,5; Iud. 15,1; Apoc. 3,19; F. Büchsel, ἐλέγχω, in GLNT III, coll. 389-398. In or. 16,8-9 troviamo lo stesso verbo del nostro passo: ὅταν διελέγχῃ τε πρὸς ἡμᾶς. In numerosi passi della sua opera il Cappadoce predilige il neotestamentario κρίνω, come nella già citata or. 16,9...τοῦ κρίνοντος αὐτοὺς λόγου; in or. 21,17 ὅταν ἀναστῇ κρῖναι τὴν γῆν (simile espressione in or. 30,4); or. 29,20 ἥξει κρῖναι ζῶντας καὶ νεκρούς (simile espressione in or. 40,45); or. 32,30 ὡς καὶ αὐτὸς ἐν τοῖς αὐτοῖς μέτροις 81

κρινόμενος (bisogna giudicare il prossimo considerando che anche l uomo sarà giudicato); carm. II,1,11 v. 1670 κρίνειν τῷ τελευταίῳ πυρί (il fuoco finale è immagine del giudizio universale); II,1,40 v. 4 Καὶ πάντ ἐλέγχουσ ἡμέρα; II,1,72 v. 8 Χριστὸς κρίνων; Christ. pat. 1805 Θεὸς σοφῶς κρίνει e 2542-43 σὺ Θεὸς μέγας, κριτής τε πανένδικος ἔρχῃ με κρίνων. Cristo è chiamato giudice in I,1,5 v. 43, Χριστὸς δικαστής (cfr. Schwab, pp. 104-105); I,2,28 vv. 313-314; epist. theol. 202,15 τὸν κριτὴν τῶν πάντων. Gregorio allude al giudizio universale anche in or. 19,15; cfr. Mossay, pp. 83-109. Sulla figura di Cristo-giudice si veda anche Rudasso, pp. 92-94. Cfr., infine, F. Büchsel- V. Herntrich, κρίνω, in GLNT VI, coll. 1021-1110. 11-49 Questa lunga sezione del carme è stata definita da Demoen, Poet, p. 433 come Narratio. Lo studioso, infatti, prendendo le mosse dalla ben consolidata concezione del carme come epistola in versi, ne ha sottolineato la forte impostazione retorica, suddividendolo in sezioni che rispecchiano quelle dei classici λόγοι epidittici. 11-13 L apostrofe iniziata al v. 5 con l imperativo ἐπάκουσον e rivolta al padre culmina in una serie di tre proposizioni interrogative che si susseguono e che conferiscono al carme un ritmo incalzante. Ciascuna di esse ruota attorno ad una parola-chiave: ὀδούς, per la prima; ποινή, per la seconda; Ἐρινύς per la terza. L uso del termine ὀδούς, di chiara valenza metaforica, è funzionale ad esprimere sia l idea della minaccia, ma anche quella della ferita, fisica e morale; il termine ποινή ha tra i suoi significati quello di vendetta ; la menzione delle Erinni, che viene ripetuta diverse volte all interno del carme, rimanda ad un ambito ben preciso, quello della discordia familiare appunto, in quanto nella mitologia greca questi esseri erano considerati demoni della vendetta che intervenivano in casi di misfatti, soprattutto omicidi, compiuti in ambito domestico; cfr. Hunger, s.v.; Masson-Vincourt, p. 234. 11 Τίπτε La prima delle tre proposizioni interrogative è introdotta da un avverbio di largo uso nella poesia classica, cfr. Hom. Il. 4,34; 6,254; 7,24 etc.; Od. 1,225; 2,363; 4,312 etc.; hym. in Cer. 114; hym. in Merc. 155; Aeschl. Pers. 555; Ag. 975 Apoll. Rhod. 1,1315; 3,464. 975. Per il nesso incipitario τίπτε τόσον, in forte allitterazione con i 82

successivi elementi del verso, cfr. Bion. fr. 14,2, ma anche Greg. Naz. carm. II,1,19 v. 12 τίπτε τόσοις. τεκέεσσι τεοῖς cfr. supra, nota al v. 6. ἐπέβρισας ὀδόντα Il verbo βρίθω, nella sua accezione di gravare, pesare, è usato dal Cappadoce per esprimere il peso esercitato dal corpo verso la terra, mentre trascina con sé l anima pur con tutta la costante tensione di questa verso verso l alto: cfr. Sundermann, p. 157; per una forma corradicale si veda A. Nicolosi, Su un hapax di Gregorio di Nazianzo: de humana natura 101 brisaukēn, Paideia 61, 2006, pp. 341-344. Pare che il costrutto (ἐπι)βρίθω+ὀδόντα non trovi parallele attestazioni in altri autori, per cui l espressione sarebbe conio di Gregorio. Con essa il Cappadoce rappresenterebbe l atto metaforico di affondare i denti, di premere con i denti la carne, per ferire o addirittura uccidere: l'immagine metaforica delle ferite è utilizzata, infatti, al v. 19 per esprimere i contrastivi rapporti tra il genitore e i figli. Sembra interessante, a questo proposito, un passo della visione di Daniele in cui è descritta una «quarta bestia che divorava tutto e calpestava il resto con i piedi»: τότε ἤθελον ἐξακριβάσασθαι περὶ τοῦ θηρίου τοῦ τετάρτου τοῦ διαφθείροντος πάντα καὶ ὑπερφόβου, καὶ ἰδοὺ οἱ ὀδόντες αὐτοῦ σιδηροῖ καὶ οἱ ὄνυχες αὐτοῦ χαλκοῖ κατεσθίοντες πάντας κυκλόθεν καὶ καταπατοῦντες τοῖς ποσί (Dan. 7,7 e 19). Nell Antico Testamento si ritrova l immagine metaforica dei denti dei leoni con la loro potenzialità omicida, come in Sir. 21,2 ὀδόντες λέοντος οἱ ὀδόντες αὐτῆς ἀναιροῦντες ψυχὰς ἀνθρώπων; Ps. 56,5 υἱοὶ ἀνθρώπων, οἱ ὀδόντες αὐτῶν ὅπλον καὶ βέλη, καὶ ἡ γλῶσσα αὐτῶν μάχαιρα ὀξεῖα; Gl. 1,6 οἱ ὀδόντες αὐτοῦ ὀδόντες λέοντος, καὶ αἱ μύλαι αὐτοῦ σκύμνου. Cfr. ancora Iob 29,17 συνέτριψα δὲ μύλας ἀδίκων, ἐκ δὲ μέσου τῶν ὀδόντων αὐτῶν ἅρπαγμα ἐξέσπασα; Ps. 123,6 εὐλογητὸς κύριος, ὃς οὐκ ἔδωκεν ἡμᾶς εἰς θήραν τοῖς ὀδοῦσιν αὐτῶν, citato da Gregorio in or. 13,2 dove i denti sono quelli dei nemici che perseguitarono i martiri Maccabei; Sir. 39,30; Ps. 3,8; Pr. 30,14. Per l uso del Siracide in Gregorio di Nazianzo cfr. M. Gilbert, Grégoire de Nazianze et le Siracide, Augustinianum 27, 1988, Mémorial J. Gribomont, pp. 307-314. 12 κακόχαρτος 83

Questo aggettivo composto trova la sua prima attestazione in Hes. Op. 28 Ἔρις κακόχαρτος e 196. Il Nazianzeno lo usa anche in carm. I,1,9 additamentum L v. 6 πλοῦτος κακόχαρτος; carm. Ι,2,9a vv. 20 ἁμαρτὰς κακόχατρος e 41; II,1,13 v. 160 φθόνος κακόχαρτος; cfr. anche Clem. Alex. paed. 3,11,75 ἀφροδίτην κακόχαρτος ἡδονὴν. Sembra interessante notare come la prima accezione di questo aggettivo in iunctura con Ἔρις di Hes. Op. 28 si avvicini molto al nostro contesto, giacché la stesura del carme è connesso proprio ad una contesa familiare tra padre e figli, per cui non possiamo escludere che il Nazianzeno lo abbia usato avendo in mente proprio il passo di Esiodo; cfr. Palla-Kertsch, pp. 136-137. ποινή Questo termine è impiegato svariate volte nei carmi di Gregorio nell accezione di pena, castigo, cfr. carm. I,1,8 v. 35; I,2,14 v. 57; I,2,15 v. 104; I,2,29 v. 116; II,1,19 v. 36; II,1,42 v. 12; II,2,5 vv. 113 e 127; Christ. pat. 702. 1581. 1647. Sembra però che in questo contesto debba intendersi nel senso di vendetta o in senso negativo di soddisfazione, compiacimento : cfr. LSJ s.v. 13 Ἐρινὺς Le Erinni nella mitologia classica erano divinità maligne che intervenivano in casi di misfatti compiuti in ambito familiare. Si ricordi il ruolo centrale svolto nella vicenda dell uccisione di Clitemnestra da parte del figlio Oreste e la persecuzione che questi demoni attuarono nei confronti del matricida, fil rouge delle due tragedie di Eschilo Coefore ed Eumenidi, e dell Oreste di Euripide: cfr. anche Aesch. Sept. 1055; Ag. 463; Pr. 516; Soph. Ai. 843. 1034. 1390; El. 112. 491; Ant. 809. 1075; Eur. Med. 1389, Suppl. 836; Apollod. Bibl. 1,1,4; in ambito latino sono chiamate anche Furiae, cfr. Ovid. Met. 4,451. 511; 6,430-431; 8,481-482; Virg. Aen. 2,337. 573; 7,447. 570. Gregorio chiama in causa le Erinni, oltre a II,2,3 vv. 228 e 303, anche in or. 18,31 e Anth. Pal. 8,199,1; cfr. Hunger, s.v.; Masson-Vincourt, p. 196; Moormann-Uitterhoeve, s.v. Il vocabolo, che ha classicamente -ρῑ-, mentre nel passo in oggetto presenta -ρῐ-, si riscontra nella poesia esametrica sempre in clausula con la funzione di raccordare quinto e sesto metron: cfr. Hom. Il. 9,454. 575; 19,87; Od. 15,234; Apoll. Rh. 2,220; 3,704; 4,476; la regula è ripresa da Nonn. Dion. 7,181; 8,293; 31,264 etc; cfr. «Introduzione. Metrica». ἀτάσθαλος 84

Questo aggettivo è attribuito, nel mondo classico, all uomo o alla sua condotta, cfr. Hom. Il. 22,418; Od. 4,693; 7,60; 8,166 etc.; Hes. Th. 164. 996; Apoll. Rh. 1,815. 1317; 3,390 etc.; Theogn. 1,178; Hdt. 9,116. Gregorio si accorda con la tradizione in carm. I,1,2 v. 38 ἀνθρώπων νόος; I,2,1 v. 36 e 486; I,2,2 v. 432; I,2,29 v. 211; II,1,1 vv. 38 e 67; II,1,17 v. 33; II,1,34A v. 105 (νόον) e II,1,34B v. 37 λόγος; II,1,45 v. 101; II,1,55 v. 9; Anth. Pal. 8,105,1 e 197,3 (ἀνήρ), attribuendolo, solo in questo passo del nostro carme, ad una divinità, Ἐρινύς, modus che potrebbe essere un eco di hymn. in Apoll. 67 ἀτάσθαλον Ἀπόλλωνα. Si noti inoltre come nella poesia esametrica l aggettivo occupi sempre, con un unica eccezione in Hom. Od. 18,139 dove connette I e II metron, la stessa sede metrica, a cavallo, cioè, tra III e IV metron, regula rispettata da Gregorio e ripresa da Nonno in Dion. 11,349 e 456; 44,133 etc.; Par. 7,181. ὄλβον Una vita felice è quella che il figlio sostiene di vivere prima di essere cacciato da casa, insieme al fratello, dal padre Vitaliano: τίς δ Ἐρινὺς τόσον ὄλβον ἀτάσθαλος ἐξετίναξεν. Il termine ὄλβος indica propriamente la felicità, la prosperità intesa anche in senso materiale tanto da diventare sinonimo di πλοῦτος, come si legge in carm. I,2,2 vv. 152 ss. nel discorso che Ionadàb rivolge ai suoi figli (ripresa di Ger. 35,1-11); qui, in realtà, ὄλβος e πλοῦτος coincidono con Dio, perché la vera ricchezza e felicità corrispondono ad una vita dedicata a Dio: ὄλβον τὸν ὑπέρετατον ἐν μερόπεσσι θεῷ ζώοιτε, θεὸν δέ τέ πλοῦτον ἔχοιτε. In I,1,4 v. 83 si legge: ἥδε γάρ ἐστιν ἄνακτος ἐμοῦ φύσις, ὄλβον ὀπάζειν, e Sykes, p. 169, così commenta: «The very essence of God s rule is beneficent, his generosity Gregory writes of the blessing of sharing something of the divine nature»; in II,1,1 vv. 93-95 la felicità è un possesso fugace paragonato alle labili tracce di una nave che subito scompaiono, τοίη γὰρ μερόπων γενεή, τοῖος δὲ καὶ ὄλβος, / ὄλβος ἀφαυροτάτοισιν ὁμοίϊος ἴχνεσι νηός; in II,1,43 v. 30 la felicità coincide con Cristo; in Christ. pat. 1016-1018 la riflessione sulla felicità avanzata dalla Madre di Dio è degna dei più illustri personaggi tragici: Θνητῶν γὰρ οὐδείς ἐστιν ὄλβιος φύσει / ὄλβου δ ἐπιρρυέντος, εὐκλεέστερος / ἄλλου γένοιτ ἂν ἄλλος, ὄλβιος δ ἂν οὔ; cfr. LSJ s.v.; Zehles-Zamora, pp. 100-102; Bénin, p. 583. 14-19 85

Gregorio fornisce in questi versi importanti informazioni sulla persona del destinatario del carme, Vitaliano che, nonostante le tre brevi missive ai lui rivolte (epist. 75; 193; 194), rimane un personaggio dai contorni incerti (per un breve profilo dell'uomo cfr. Hauser-Meury, pp. 179-180). Apprendiamo, infatti, che questo uomo appartiene ad una famiglia di ottima discendenza (μὲν πατέρων ἀγαθῶν), che gode di una certa reputazione (οὐκ ὀλίγος δέ), e che, tratto saliente, è di fede cristiana (Θεῷ δέ μεμήλας). Inoltre, comincia a delinearsi la situazione che ha portato alla composizione del carme, cioè la cacciata dei figli dalla casa paterna, poiché l io loquens accusa il padre Vitaliano di aver commesso un azione così crudele che lo rende paragonabile a coloro che odiano Dio (ἀλλὰ τέθηπα / πῶς σὺ θεοστυγέεσσιν ὁμοίϊα κήδε ἀνέτλης). In particolare i concetti esposti ai vv. 14-17 sembrano assumere, per la loro linearità, le caratteristiche di pseudo-γνῶμαι, poste rispettivamente nelle due sezioni del verso separate dalla cesura. Regali, Declamazioni, p. 530 sottolinea come il tono questi versi (così come quello dei vv. 34-37; 248ss.; 268-284; 333; 338-347), dove si esaltano le qualità del padre e la sua felice condizione, si adegui perfettamente all'impostazione retorica di una declamazione, pronunciata da un figlio che vuole riconciliarsi col genitore. 14 La costruzione del verso si articola in due sezioni complementari scandite dalle particelle μέν-δέ. La prima espressione (e informazione) si arresta davanti ad una dieresi bucolica che imprime una forte pausa al verso: ἤτοι μὲν πατέρων ἀγαθῶν ἔφυς, mentre la seconda si prolunga in enjambement al verso successivo. 14 ἤτοι μὲν Per le numerosissime occorrenze del nesso incipitario ἤτοι (ὁ) μέν, cfr. Hom. Il. 3,168 e 213; 4,18; 5,842 etc.; Hes. Th. 116. 1004; Apoll. Rh. 1,74; 2,147; 4,6etc.; Arat. 1,462; Theocr. 25,323; Nic. Ther. 260; Opp. An. Hal. 1,577 e 362; Opp. Ap. Cyn. 1,56; Greg. Naz. carm. I,1,1 v. 20; I,1,7 v. 8; I,2,1 vv. 15 e 65; II,1,45 vv. 77 e 335. πατέρων ἀγαθῶν Elogio delle origini di Vitaliano. L'applicazione del topos della captatio benevolentiae che abbiamo rilevato nei versi incipitari del carme si estende anche alla lode della famiglia di appartenenza, ma l'εὐγένεια, nell'accezione cristiana, interessa e riguarda soprattutto le qualità morali della famiglia (cfr. nell'etica greca Eur. Heracl. 86

297-298: Οὐκ ἔστι παισὶ τοῦδε κάλλιον γέρας / ἢ πατρὸς ἐσθλοῦ κἀγαθοῦ πεφυκέναι). Come già sottolineato da Moroni, p. 203, comm. a carm. II,2,5 v. 18: Παῖς καὶ ἐγὼ γενόμην ἀγαθοῦ πατρός, il tipico avvio di un encomio è l elogio delle qualità morali che i genitori trasmettono ai figli, tratto ben presente nelle lodi che il Nazianzeno rivolge ai parenti e agli amici (Gregorio il Vecchio, Nonna, Cesario, Gorgonia, Basilio), secondo una prassi presente già nella prima parte di Proverbi che sicuramente il Cappadoce ben conosceva. Per simili espressioni cfr. carm. I,1,27 v. 43 τὸν παιδὶ πατὴρ φίλος ἐσθλὸς ἀρίστῳ (stessa espressione di I,2,2 v. 389); II,1,11 v. 51 ἦν μοι πατὴρ καλός τε κἀγαθὸς ; in II,1,19 v. 4 ὡς δὲ πατὴρ ἀγαθὸς καὶ ἄφρονος υἷος ἑοῖο, si dice che da un padre buono può derivare anche un figlio a volte insensato, come si definisce Gregorio in uno dei suoi sfoghi; II,2,4 v. 38 ὡς ἀγαθοῖο πατρὸς πάϊς. Al v. 171 del nostro carme l elogio si estende anche alla madre, Ἡμᾶς δ, οὓς σὺ φύτευσας ἰῆς ἀπὸ μητρὸς ἀρίστης. Μa come da padre in figlio si trasmettono le buone qualità, così anche le cattive come, in tono polemico, leggiamo al v. 65 κακίῃ μὲν ἐμῆ, κακίῃ δέ τε πατρὸς; cfr. ancora Moroni, p. 105. La nobiltà dei natali, εὐγένεια (topos di derivazione cinica, ripreso anche da Plut. de lib. educ. 1 B Καλὸς οὖν παρρησίας θησαυρὸς εὐγένεια) è criticata aspramente da Gregorio se non è sostenuta da un agire retto, per cui cfr. or. 8,6-7 in cui il Cappadoce afferma che la vera "nobiltà è la conservazione dell'immagine": Εὐγένεια δὲ ἡ τῆς εἰκόνος τήρησις e polemizza contro coloro che si vantano del loro lignaggio, οἷα μὴ πολλοῖς ῥᾳδίως ὑπάρχει τῶν ἐπ εὐγενείᾳ μέγα κομώντων καὶ φυσωμένων τοῖς ἄνωθεν (cfr. Calvet-Sebasti, Discours 6-12, p. 256 nota 2); 25,3; 26,10; or. 33,12; I,2,8 vv. 41ss.; I,2,26 in particolare v. 17 Ἀλλὰ σὺ χρυσῶν μὲν πατέρων ἔφυς, ὤς σε λέγουσιν da intendere in tono sarcastico, e l intero carme I,2,27. Di forte impatto è, infine, la sentenza che si legge in I,2,33 vv. 141-144: Κακὸς δ ἀκούων αἱσχούνου, μὴ δυσγενής. / Γένος γάρ εἰσιν οἱ πάλαι σεσηπότες. / γένους προάρχειν κρεῖσσον, ἢ λύειν γένος, / ὦς καλὸν εἶναι, ἢ καλῶν πεφυκέναι; cfr. Regali, Datazione, p. 374; Regali, Declamazioni, p. 533 e nota 41; Moreschini-Gallay, pp. 182-183 nota 2; or. 36,11 cit. infra, nota al v. 278. Per un analisi del locus de nobilitate all interno delle opere del Nazianzeno cfr. Werhahn, p. 37 note 32-33. ἔφυς 87