Sir 3, ; Sal 68; Eb 12, a; Lc 14,1.7-14

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1 XXII domenica del T..O.. (C) Sir 3, ; Sal 68; Eb 12, a; Lc 14, Il Libro del Siracide (Σοφία Σειράχ, Sofía Seirách, «sapienza di Sirach»; latino Siracides) o Ecclesiastico è un testo contenuto nella Bibbia cristiana (Settanta e Vulgata) ma non accolto nella Bibbia ebraica (Tanakh). Come gli altri libri deuterocanonici è considerato ispirato nella tradizione cattolica e ortodossa, mentre la tradizione protestante lo considera apocrifo. È stato scritto originariamente in ebraico a Gerusalemme attorno al 180 a.c. da «Gesù (o Giosuè) figlio di Sirach», poi tradotto in greco dal nipote poco dopo il 132 a.c. Rappresenta l'unico testo dell'antico Testamento del quale è possibile identificare con certezza l'autore. È composto da 51 capitoli con vari detti di genere sapienziale, sintesi della religione ebraica tradizionale e della sapienza comune. Sir 3,17: Figlio, compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso (Τέκνον, ἐν πραύτητι τὰ ἔργα σου διέξαγε, καὶ ὑπὸ ἀνθρώπου δεκτοῦ ἀγαπηθήσῃ). - Figlio, compi le tue opere con mitezza (Τέκνον, ἐν πραύτητι τὰ ἔργα σου διέξαγε). Questa pericope, che si apre con la rinnovata menzione dell'interlocutore (figlio, τέκνον) e si conclude con una massima di carattere generale (v. 29), ammonisce contro l'orgoglio, inteso specialmente in senso intellettuale. Lo spirito greco, speculativo e razionalista, è visto come un pericolo per il giudeo che basa la riflessione della ragione sul presupposto della rivelazione divina (cf 19,24). Ma è anche vero che si trovano cenni di timore riverenziale presso gli scrittori greci, per esempio in Euripide: «Non è sapienza pensare con sottigliezza su ciò che è immortale» (Baccanti 390ss). 3,18: Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore (ὅσῳ μέγας εἶ, τοσούτῳ ταπείνου σεαυτόν, καὶ ἔναντι κυρίου εὑρήσεις χάριν ). - Quanto più sei grande, tanto più fatti umile (ὅσῳ μέγας εἶ, τοσούτῳ ταπείνου σεαυτόν). L'esortazione continua con un richiamo all'umiltà: Dio non si manifesta a una persona caparbia e presuntuosa, ma soltanto a chi preserva l'intelletto dall'ambizione e si dimostra capace di ascoltare e meditare la parola divina. 3,19: Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi, ma ai miti Dio rivela i suoi segreti. 3,20: Perché grande è la potenza del Signore, e dagli umili egli è glorificato (ὅτι μεγάλη ἡ δυναστεία τοῦ κυρίου καὶ ὑπὸ τῶν ταπεινῶν δοξάζεται). - dagli umili egli è glorificato (ὑπὸ τῶν ταπεινῶν δοξάζεται). Tutta la Bibbia documenta questa preferenza di Dio. Gli amici di Dio si riconoscono dalla loro umiltà: Abramo, Mosè, Samuele, David, Geremia, Servo sofferente, Maria di Nazaret. 1

2 3,28: Per la misera condizione del superbo non c è rimedio, perché in lui è radicata la pianta del male (ἐπαγωγῇ ὑπερηφάνου οὐκ ἔστιν ἴασις φυτὸν γὰρ πονηρίας ἐρρίζωκεν ἐν αὐτῷ). - Per la misera condizione del superbo non c è rimedio (ἐπαγωγῇ ὑπερηφάνου οὐκ ἔστιν ἴασις). Il superbo (ὑπερήφανος) si manifesta come un uomo dal «cuore ostinato, indurito»; il suo atteggiamento è di orgogliosa chiusura verso gli altri. Chi si arrocca in se stesso non confida in Dio e provoca la propria rovina. Per il superbo non c'è rimedio, guarigione (ἴασις). Anche Dio si riconosce impotente. Sembra non esserci nulla - neppure la sventura - a curare una malattia così grave come la superbia, poiché il male ha già messo radici profonde nel suo cuore. 3,29: Il cuore sapiente medita le parabole, un orecchio attento è quanto desidera il saggio (καρδία συνετοῦ διανοηθήσεται παραβολήν, καὶ οὖς ἀκροατοῦ ἐπιθυμία σοφοῦ). Umiltà, orgoglio e superbia formano l'oggetto di questa unità che nei versetti introduce il tema dell'elemosina e dell'aiuto ai poveri. Al di là della notevole diversità nelle traduzioni, qui è indiscutibile l'enfasi posta sulla virtù dell'umiltà come meta di conquista da parte del saggio. La tentazione dell'orgoglio intellettuale, sollecitata anche dall'avidità di togliere il velo a ogni mistero (la natura della divinità, dell'universo, ecc.) e di conoscere razionalmente più cose possibili (cf 18,3-5) è denunciata infatti come pericolo sempre latente; non perché il fascino dell'ignoto e l'investigazione conseguente siano un male in sé, ma perché, nel momento in cui essi oltrepassano i loro confini, escono di rotta, allontanandosi dalla rivelazione divina e dal "timore del Signore". Gli smarrimenti e le deviazioni dottrinali a cui si allude (v. 24) nascono dalla presunzione di voler spiegare tutto. Per questo, Ben Sira raccomanda l'umiltà, che è prima di tutto la coscienza del proprio limite e l'accettazione di ciò che trascende le possibilità dell'uomo. Da questo atteggiamento di profonda consapevolezza può nascere, infatti anche la vera apertura al mistero di Dio. La seconda lettura ci descrive la nuova alleanza come la festosa adunanza che si ritrova attorno a Gesù, sommo ed eterno sacerdote. Eb 12,18-19: [Fratelli,] non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, 19 né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola (Οὐ γὰρ προσεληλύθατε ψηλαφωμένῳ καὶ κεκαυμένῳ πυρὶ καὶ γνόφῳ καὶ ζόφῳ καὶ θυέλλῃ 19 καὶ σάλπιγγος ἤχῳ καὶ φωνῇ ῥημάτων, ἧς οἱ ἀκούσαντες παρῃτήσαντο [μὴ] προστεθῆναι αὐτοῖς λόγον). - non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente (Οὐ γὰρ προσεληλύθατε ψηλαφωμένῳ καὶ κεκαυμένῳ πυρὶ). In questa prima scena, l'autore evoca la straordinaria teofania del monte Sinai. Il «qualcosa di tangibile» (ψηλαφωμένῳ, part. pres. pass. di ψηλαφάω, pselapháō, «toccare, tastare») è di certo il monte Sinai. Esso rappresenta il luogo di fondazione d'israele come popolo di Dio, il momento in cui lo incontra faccia a faccia. Ciò che è detto del Sinai, lo è dell'antica alleanza nella sua totalità. I fenomeni naturali descritti in Eb 12,18-19 sono quelli di Es 19,16; 20,18; Dt 4,11; 5,22 esposti con genere letterario apocalittico: fuoco ardente, oscurità, tenebra e tempesta, suono del corno e delle trombe; manca ogni riferimento al dono della Legge attraverso gli angeli (cf Eb 2,2). Altri elementi sono: «squillo di tromba» (σάλπιγγος ἤχῳ) e «suono di parole» (φωνῇ ῥημάτων) (v. 19). A differenza dell'interpretazione cristiana che mira a sminuire l'esperienza del Sinai, in verità Israele ha vissuto in maniera unica l'esperienza dell'ascolto della voce (qol) di Dio. Il coinvolgimento è stato tale che si è tradotta in un patto (berit) nuziale tra Adonay e il suo popolo. 12,22-24a: Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all adunanza festosa 23 e all assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, 24a Gesù, mediatore dell alleanza nuova (ἀλλὰ προσεληλύθατε Σιὼν ὄρει καὶ πόλει θεοῦ ζῶντος, Ἰερουσαλὴμ ἐπουρανίῳ, καὶ μυριάσιν ἀγγέλων, 23 πανηγύρει καὶ ἐκκλησίᾳ πρωτοτόκων ἀπογεγραμμένων ἐν οὐρανοῖς καὶ κριτῇ θεῷ πάντων καὶ πνεύμασι δικαίων τετελειωμένων 24 καὶ διαθήκης νέας μεσίτῃ Ἰησοῦ). 2

3 - Voi invece vi siete accostati al monte Sion (ἀλλὰ προσεληλύθατε Σιὼν ὄρει). La seconda scena messa in campo (vv ) presenta il monte Sion (Σιὼν ὄρει), luogo della nuova alleanza. Essa è in contrasto con la prima (vv ): «Voi non vi siete avvicinati (προσεληλύθατε, proselēlýthate)» (v. 18); «Voi invece vi siete accostati (προσεληλύθατε, proselēlýthate)» (v. 22). Il contrasto fa perno sulla voce verbale προσεληλύθατε, proselēlýthate, il cui valore sacrificale, cultuale e di alleanza è ben reso dai nove riferimenti che ne dipendono: vi siete accostati al Dio vivente, alla Gerusalemme celeste, a migliaia di angeli, all'adunanza festosa, all'assemblea dei primogeniti, al Dio giudice, agli spiriti dei giusti, al mediatore dell'alleanza nuova, al sangue purificatore (vv ). Il contrasto con la prima scena si fa notare poi nella descrizione del luogo. Eb 12,22-24 non fa menzione di alcun elemento fisico come il tuono o il fuoco, ma dà una triplice designazione: il Sion, la città del Dio vivente, la Gerusalemme celeste. Precedenti per una Gerusalemme celeste messa a confronto con quella terrestre abbondano nella tradizione apocalittica (2Baruch 4,2-7; 4Esdra 7,26; 8,52; 10,25-28; 13,16). La tradizione apocalittica di una Gerusalemme parallela, celeste, trova testimonianza in tre testi del NT all'infuori di Ebrei. In Gal 4,24-26 Paolo scrive ai Galati che essi hanno la Gerusalemme celeste come loro madre e perciò sono figli della libertà. In Ap 3,12 e 21,3 leggiamo di una città nuova, che discende dal cielo, la Gerusalemme celeste dove i cristiani dimorano con Dio. - Gesù, mediatore dell alleanza nuova (διαθήκης νέας μεσίτῃ Ἰησοῦ). L'incontro con la nuova alleanza continua al v. 24. Gesù rende possibile l'incontro con il mondo celeste poiché è stato reso mediatore (μεσίτης). Sacerdote e vittima, egli ha portato a compimento l'antica alleanza, offrendone una nuova interpretazione. L'importanza decisiva del sacrificio di Gesù è sottolineata dal «sangue purificatore». A differenza dei sommi sacerdoti, Gesù ha offerto il proprio sangue come sacrificio di espiazione. Il vangelo vede Gesù a mensa con un capo dei farisei. Gesù coglie l'occasione per esortare all'umiltà e alla condivisione dei beni con i poveri. Lc 14,1: Un sabato si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo (Καὶ ἐγένετο ἐν τῷ ἐλθεῖν αὐτὸν εἰς οἶκον τινος τῶν ἀρχόντων [τῶν] Φαρισαίων σαββάτῳ φαγεῖν ἄρτον καὶ αὐτοὶ ἦσαν παρατηρούμενοι αὐτὀν). - Un sabato si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare (Καὶ ἐγένετο ἐν τῷ ἐλθεῖν αὐτὸν εἰς οἶκον τινος τῶν ἀρχόντων [τῶν] Φαρισαίων σαββάτῳ φαγεῖν ἄρτον). L'espressione «uno dei capi dei farisei» (τινος τῶν ἀρχόντων [τῶν] Φαρισαίων) suona sorprendente, perché i farisei non erano organizzati gerarchicamente. Si tratta o di un fariseo eminente, autorità morale in seno al partito, o di un magistrato giudeo di tendenza farisaica, giudice, capo di sinagoga o membro di un sinedrio locale. Luca, che predilige il vocabolo ἄρχων, árchōn, «principe», «capo», pone per una volta Gesù fra i notabili. Non v'è dubbio che il particolare importante sia σαββάτῳ, «durante un sabato». Dipende dalle consuetudini che vi si mangi solennemente e vi s'inviti un ospite di passaggio. - per pranzare (φαγεῖν ἄρτον, lett. «per mangiare pane»). L'ambientazione di un invito a pranzo è già stata usata per altri episodi di conflitto (5,29; 7,36-50; 11,37-53). - ed essi stavano a osservarlo (καὶ αὐτοὶ ἦσαν παρατηρούμενοι αὐτὀν). Il verbo παρατηρέω, paratēréō, «osservo attentamente, scruto, spio» allude a una «osservazione ostile». 14,7-9: Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: 8 «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, 9 e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedigli il posto!. Allora dovrai con vergogna occupare l ultimo posto (Ἔλεγεν δὲ πρὸς τοὺς κεκλημένους παραβολήν, ἐπέχων πῶς τὰς πρωτοκλισίας ἐξελέγοντο, λέγων πρὸς αὐτούς 8 ὅταν κληθῇς ὑπό τινος εἰς γάμους, μὴ κατακλιθῇς εἰς τὴν πρωτοκλισίαν, μήποτε ἐντιμότερος σου ᾖ κεκλημένος ὑπ αὐτοῦ, 9 καὶ ἐλθὼν ὁ σὲ καὶ αὐτὸν καλέσας ἐρεῖ σοι δὸς τούτῳ τόπον, καὶ τότε ἄρξῃ μετὰ αἰσχύνης τὸν ἔσχατον τόπον κατέχειν). 3

4 - Diceva agli invitati una parabola (Ἔλεγεν δὲ πρὸς τοὺς κεκλημένους παραβολήν). Il termine «parabola» (παραβολή) traduce l'ebraico mashal, che ha molteplici significati: proverbio, enigma, parabola, allegoria, discorso figurato. - notando come sceglievano i primi posti (ἐπέχων πῶς τὰς πρωτοκλισίας ἐξελέγοντο). L'occasione per esprimersi viene offerta a Gesù dall'atteggiamento poco commendevole degli invitati: «sceglievano i primi posti (πρωτοκλισίας)». Il nostro testo presuppone un margine di libertà nella scelta dei posti. Il participio ἐπέχων, epéchōn è causale: poiché «aveva notato» come... Evidentemente da entrambe le parti c'è un'attenta osservazione! - Quando sei invitato a nozze (ὅταν κληθῇς ὑπό τινος εἰς γάμους). Il genere di festa non ha evidentemente molta importanza, visto che qui Luca usa γάμους, gámous, «nozze» e in 14,12 ἄριστον ἢ δεῖπνον, áriston è deĩpnon, «pranzo o cena». - Allora dovrai con vergogna occupare l ultimo posto (καὶ τότε ἄρξῃ μετὰ αἰσχύνης τὸν ἔσχατον τόπον κατέχειν). I concetti di «vergogna» (αἰσχύνη, aischýnē) e di «onore» (dóxa) erano molto importanti nella cultura ellenistica (cf Epitteto, Discorsi 3,7,27-36; 3,18,6-7; Lettera di Aristea ; Plutarco, Discorsi a tavola 1,2; Petronio, Satyricon 38,70; Giovenale, Satire 5,16-19; 11, ; Gc 2,1-3). 14,10: Invece, quando sei invitato, va a metterti all ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: Amico, vieni più avanti!. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali (ἀλλ ὅταν κληθῇς πορευθεὶς ἀνάπεσε εἰς τὸν ἔσχατον τόπον, ἵνα ὅταν ἔλθῃ ὁ κεκληκώς σε ἐρεῖ σοι φίλε, προσανάβηθι ἀνώτερον τότε ἔσται σοι δόξα ἐνώπιον πάντων τῶν συνανακειμένων σοι). - quando sei invitato, va a metterti all ultimo posto (ὅταν κληθῇς πορευθεὶς ἀνάπεσε εἰς τὸν ἔσχατον τόπον). Luca, che insiste sul carattere parabolico dell'insegnamento, immagina un festino di nozze. Poiché già allora le persone si credevano chissà chi, taluni ospiti importanti facevano attenzione a non arrivare per primi. Se cedere il proprio posto non è piacevole, doverlo dare è umiliante. Come si vedrà (vv ), se i notabili si preoccupano del loro rango, i miserabili si rallegrano semplicemente di avere un posto, senza tener conto dell'onore. Quando il Cristo è venuto nel mondo, non c'era posto per lui (2,7), ma è venuto ugualmente e si è inserito tra i poveri. Gesù, non propone una gerarchia coercitiva, ma invita a non considerarsi superiore agli altri e a prendere l'ultimo posto. - Amico, vieni più avanti (φίλε, προσανάβηθι ἀνώτερον). Come altre volte nel racconto, Luca mostra di apprezzare la finezza delle convenzioni dell'amicizia nel mondo ellenistico. L'essere trattati da «amici» e invitati a occupare un posto più ambìto è segno di una speciale intimità e, più ancora, di parità con il padrone di casa (cf Aristotele, Etica a Nicomaco 8,5,5). 14,11: Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato» (ὅτι πᾶς ὁ ὑψῶν ἑαυτὸν ταπεινωθήσεται, καὶ ὁ ταπεινῶν ἑαυτὸν ὑψωθήσεται). - chiunque si esalta sarà umiliato (πᾶς ὁ ὑψῶν ἑαυτὸν ταπεινωθήσεται). Come in altre formule del genere, la voce passiva suggerisce che sarà Dio a umiliare. La poca stima di sé o l'umiltà (ταπεινοθροσὑνη) dai moralisti ellenici era considerata un vizio, non una virtù (cf Epitteto, Discorsi 1,9,10; 3,24,56). Negli scritti del NT è invece una virtù tipicamente cristiana ampiamente documentata (cf Mt 11,29; Rm 12,16; Ef 4,2; Fil 2,3; Col 3,12; 2 Cor 11,7; At 20,19; Gc 4,6), ispirata all'esempio di un umile Salvatore (Fil 2,8). Una versione di questa idea di «essere umiliati per poter essere esaltati» si trova anche in Mt 18,4 e 23,12; Gc 4,6 e 10; 1 Pt 5,6. In Luca-Atti ha una particolare forza tematica facendo parte del capovolgimento divino (Lc 1,48.52; 3,5; 10,15; 14,11; 18,14; At 2,33; 5,31). 14,12: Disse poi a colui che l aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch essi e tu abbia il contraccambio (Ἔλεγεν δὲ καὶ τῷ κεκληκότι αὐτόν ὅταν ποιῇς ἄριστον ἢ δεῖπνον, μὴ φώνει τοὺς φίλους σου μηδὲ τοὺς ἀδελφούς σου μηδὲ τοὺς συγγενεῖς σου μηδὲ γείτονας πλουσίους μήποτε καὶ αὐτοὶ ἀντικαλέσωσιν σε καὶ γένηται ἀνταπόδομα σοι). - Quando offri un pranzo o una cena (ὅταν ποιῇς ἄριστον ἢ δεῖπνον). L'ἄριστον, áriston è il prandium dei latini, il «pranzo» inteso come colazione mattutina o pranzo di mezzogiorno. Il δεῖπνον, deĩpnon, coena, è la«cena», 4

5 pasto principale della sera nell'antichità. I giudei del tempo consumavano durante la settimana soltanto due pasti quotidiani, uno al mattino e l'altro alla sera. Nel giorno di sabato aggiungevano un pranzo di mezzogiorno che consumavano uscendo dalla sinagoga: può darsi che Gesù sia stato invitato a un pranzo di tal genere (14,1). Luca chiama tale pranzo solenne anche δοχή, doché, «ricevimento» (da δέχομαι, «ricevere»). - non invitare i tuoi amici (μὴ φώνει τοὺς φίλους σου). Il verbo φωνέω, phōnéō significa «gridare, chiamare». Qui è usato col significato di «invitare». La proposta di Gesù risulta sconvolgente, perché va contro tutte le abitudini sociali. Gesù non si accontenta di mantenere buone relazioni solo con gli amici (φίλοι), ma mira ad aprirci agli altri e a rinnovare il nostro sguardo sul prossimo. Ci invita alla generosità, alla gratuità. - perché a loro volta non ti invitino anch essi e tu abbia il contraccambio (μήποτε καὶ αὐτοὶ ἀντικαλέσωσιν σε καὶ γένηται ἀνταπόδομα σοι). Il verbo ἀντικαλέω, antikaléō, significa «ricambiare un invito» che insieme ad ἀνταπόδομα antapódoma, «compensazione, retribuzione, contraccambio» esprimono l'idea di retribuzione che per Gesù equivale al «guai» rivolto ai ricchi (6,24), poiché hanno già ricevuto la loro παράκλησις, «consolazione», la loro ricompensa, la loro retribuzione. Pertanto, invitare solo i propri parenti o amici significa accontentarsi di una ricompensa terrena, privandosi della ricompensa celeste. La festa con le persone sprovviste di mezzi e sfortunate prevale sulle relazioni familiari e sulle convenzioni sociali. Questa vera carità non si esprime in termini di elemosina, ma di festa. I discepoli di Gesù vedranno perciò negli esclusi ed emarginati parenti e amici. Cesseranno di temerli e di considerarli una minaccia. Quest'atteggiamento rasserenerà anche i loro nuovi incontri. Si potrà così giungere a relazioni più umane. 14,13-14: Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14 e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti» (ἀλλ ὅταν δοχὴν ποιῇς, κάλει πτωχούς, ἀναπείρους, χωλούς, τυφλούς 14 καὶ μακάριος ἔσῃ, ὅτι οὐκ ἔχουσιν ἀνταποδοῦναι σοι, ἀνταποδοθήσεται γάρ σοι ἐν τῇ ἀναστάσει τῶν δικαίων). - sarai beato perché non hanno da ricambiarti (μακάριος ἔσῃ, ὅτι οὐκ ἔχουσιν ἀνταποδοῦναι σοι). Questo è il tredicesimo macarismo nel Vangelo di Luca. La beatitudine non riguarda un futuro escatologico, ma indica il periodo successivo al festino dei poveri. Non appena avrai invitato gli esclusi e gli invalidi, sarai felice: anche in questo tempo, che è già l'anticamera di un regno che il tuo pranzo offerto agli emarginati avrà anticipato. Beati saranno quindi i cristiani, in questo tempo, quando praticheranno l'etica del regno di Dio. Da se stessi non possono affatto applicare le regole di Gesù, né in quanto invitati né in quanto ospiti. Ma il Cristo, oltre ad avere comunicato questa verità, ha dato anche l'esempio e offerto la forza del suo spirito. - Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti (ἀνταποδοθήσεται γάρ σοι ἐν τῇ ἀναστάσει τῶν δικαίων). Il prendersi cura dei diseredati è motivo di ricompensa nell'era futura. Il primo testo biblico che parla apertamente della risurrezione nel mondo che verrà è Dn 12,2-3. La credenza nella risurrezione era un credo farisaico. In At 24,15 Luca fa dichiarare a Paolo che la credenza nella risurrezione «dei giusti e degli ingiusti» era condivisa dagli stessi Giudei che lo volevano condannare. Se si vuole capire l'espressione «risurrezione dei giusti» (ἀναστάσις τῶν δικαίων), bisogna leggere nel vangelo ciò che riguarda i credenti che avranno perseverato sino alla fine: la loro ricompensa sarà grande ed essi diventeranno figli dell'altissimo (6,35); saranno difesi dal Figlio dell'uomo (12,8) e otterranno una liberazione definitiva (21,28). Una delle ambientazioni più comuni per le discussioni filosofiche nella letteratura ellenistica era quella del banchetto. Dai tempi di Senofonte ( a.c.) e di Platone ( a.c.), il symposium era praticamente diventato una forma letteraria; il mangiare e bere offriva solo l'occasione per discussioni, a volte serie e a volte frivole, sui fatti della vita. La tradizione è rispettata nei sei libri di Discorsi a tavola di Plutarco ( d.c.). Nella letteratura ebraica questa forma letteraria è rappresentata dalla Lettera di Aristea (II sec. a.c.), con una differenza: gli interlocutori sono studiosi ebraici e la loro sapienza è illustrata dalla devozione alla Torah. Luca, da parte sua, con il farci vedere Gesù che partecipa spesso a qualche banchetto, intende presentarcelo come un saggio e un profeta. L'espressione più riuscita di questa presentazione la troviamo in Lc 14, anche se la versione lucana dell'ultima Cena (22,14-38) contiene qualche traccia della tradizione del symposium. 5

6 In confronto al normale raduno dei filosofi che si incontrano per la bevuta, tuttavia, la scena che Luca presenta è più sobria. In primo luogo, vediamo che Gesù è a pranzo da un capo fariseo e che i suoi commensali sono «dottori della legge e farisei». Il fatto poi che il pranzo abbia luogo in un giorno di sabato ci prepara al confronto tra le parti. Il narratore infatti ci avverte che i commensali di Gesù «stavano ad osservarlo»: espressione che denota un atteggiamento di ostilità. Nell'introduzione (14,7) il narratore mette subito al centro lo sguardo di Gesù che si traduce in insegnamento. La ricerca dei primi posti provoca il racconto di una parabola. A prima vista le parole di Gesù sembrano scaturite dalla sapienza popolare del mondo antico in materia di etichetta. Pr 25,6-7 consiglia: «Non darti arie davanti al re e non metterti al posto dei grandi, perché è meglio sentirsi dire: «Sali quassù», piuttosto che essere umiliato davanti a uno più importante» (cf Sir 3,17-20 e Avoth de Rabbi Nathan 25). Tuttavia i vv che concludono il racconto rivelano il carattere sovversivo e «parabolico» delle parole di Gesù: tutti quelli che esaltano se stessi saranno umiliati, e quelli che si umiliano saranno esaltati. Gesù non sta parlando di quale sia il modo migliore di essere esaltati, ma della forma mentis che cerca l'esaltazione a tutti i costi. Il suo consiglio pertanto è «parabolico», perché partendo dai «buoni consigli» della sapienza umana, giunge a proporre le esigenze del Regno che sono ben diverse da ciò che noi pensiamo. Questa sfida agli schemi convenzionali del contraccambio è messa in risalto dalla condanna che Gesù fa dell'abitudine di invitare ai banchetti quelli che possono ricambiare (14,12-14). Il Vangelo invece invita i diseredati, i ciechi, gli zoppi e i poveri (7,22). Queste sono le persone che i discepoli devono invitare, praticando la misericordia «come è misericordioso il Padre vostro» (6,36). Per quanto parenetici, i nostri versetti sono anche rivelatori: insegnano la vera fonte del nostro onore, il luogo della nostra dignità. Quest'onore è legato più che a una morale dell'intenzione, a una pratica dell'impegno. Il nostro «onore» o la nostra «gloria» (δόξα, dóxa) non dipendono dalla purezza della nostra anima, ma dal «posto» (tópos) che avremo occupato, dalla posizione «scelta» (ἐκλέγομαι). L'insegnamento perciò è chiaro: solo scegliendo «l'ultimo posto» (τὸν ἔσχατον τόπον, tòn éschaton topon) si riceve l'onore da Dio. Usando il termine «parabola» (v. 7), il testo segnala che gli inviti menzionati non riguardano solo i ricevimenti mondani, ma anche la vita cristiana ed ecclesiale. La pratica evangelica diventa perciò nel mondo un riflesso e un'anticipazione del regno. Gesù stesso ha scelto l'ultimo posto, quello del Servo (22,27) che sa riconoscere la dignità dei diseredati e degli ultimi. Annoverato tra gli ingiusti (22,37), il Signore ora guida i giusti che credono nella risurrezione. 6