LA FIGURA DEL MEDICO NELL ANTICA GRECIA TESTIMONIANZE

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1 LA FIGURA DEL MEDICO NELL ANTICA GRECIA TESTIMONIANZE Per un introduzione generale sulla figura del medico greco vd. J. Jouanna, Ippocrate, tr. it. Torino 1994, pp e 188. Per maggiori informazioni bibliografiche vd. o.c. p Una medicina liberale non regolamentata da titoli che dessero accesso alla professione. Chiunque può improvvisarsi medico: l oratore Antifonte, ad esempio, prima di dedicarsi alla retorica, tentò la fortuna allestendo sulla pubblica piazza di Corinto una stanza in cui curare la tristezza con i discorsi (Plut. Vitae decem oratorum [Sp.] 833 c-d). Medici itineranti (περιοδευταί): a loro si rivolge il trattato ippocratico Arie, acque, luoghi (L II 12-93), in cui si espone l influsso delle varie condizioni climatiche sulla salute dell uomo. La carriera di Democede di Crotone (Hdt. III 131ss.): gli esordi come medico privato; l assunzione da parte di Egina prima e di Atene poi (medico pubblico); il servizio presso Policrate di Samo e in seguito presso Dario e Atossa (medico di corte). L importanza del medico pubblico (δημοσιεύων; cf. Ar. Ach. 1030): la città doveva assicurarsi le prestazioni di un medico competente. La scelta non avveniva attraverso una commissione giudicatrice, ma il medico, per essere assunto, doveva convincere l assemblea del popolo (Plat. Gorg. 514 d-e; Xen. Mem. IV 2, 5). Prima ancora che competente, un medico doveva mostrarsi abile oratore (Plat. Gorg. 456 b-c): φημὶ δὲ καὶ εἰς πόλιν ὅπῃ βούλει ἐλθόντα ῥητορικὸν ἄνδρα καὶ ἰατρόν, εἰ δέοι λόγῳ διαγωνίζεσθαι ἐν ἐκκλησίᾳ ἢ ἐν ἄλλῳ τινὶ συλλόγῳ ὁπότερον δεῖ αἱρεθῆναι ἰατρόν, οὐδαμοῦ ἂν φανῆναι τὸν ἰατρόν, ἀλλ αἱρεθῆναι ἂν τὸν εἰπεῖν δυνατόν, εἰ βούλοιτο Io sostengo che se un oratore o un medico andassero in una città, quella che vuoi, e dovessero contendersi con un discorso davanti all assemblea o ad un altra adunanza un posto da medico, da nessuna parte troveresti il medico, bensì verrebbe assunto il maestro della parola, se lo vuole. L abilità oratoria non era necessaria solo davanti all assemblea, ma anche al cospetto dei malati e dei suoi parenti, perché per acquistare fiducia il medico doveva essere chiaro e comprensibile (Hippocr. VM 2, L I 572ss.): Μάλιστα δέ μοι δοκέει περὶ ταύτης δεῖν λέγοντα τῆς τέχνης γνωστὰ λέγειν τοῖσι δημότῃσιν. Οὐ γὰρ περὶ ἄλλου τινὸς οὔτε ζητέειν προσήκει οὔτε λέγειν ἢ περὶ τῶν παθημάτων ὧν αὐτοὶ οὗτοι νοσέουσί τε καὶ πονέουσιν αὐτοὺς μὲν οὖν τὰ σφέων αὐτέων παθήματα καταμαθεῖν, ὡς γίνεται καὶ παύεται, καὶ δι οἵας προφάσιας αὔξεταί τε καὶ φθίνει, δημότας ἐόντας, οὐ ῥηΐδιον ὑπ ἄλλου δ εὑρημένα καὶ λεγόμενα εὐπετές Secondo me, chi discute sull arte medica deve soprattutto usare un linguaggio comprensibile per i profani. Infatti, è utile indagare e discutere su nient altro che sulle malattie da cui essi sono colpiti e di cui soffrono. È difficile capire da profani come queste malattie abbiano inizio e fine, per quale motivo si aggravano o migliorano. Mentre essi intendono meglio ciò che gli altri scoprono o affermano. È innegabile che l uso della parola assumesse un importanza fondamentale nella professione medica: «Il medico ippocratico non si serve d altro canto della lingua come di codice artificialmente chiuso e rigidamente univoco. Il suo s inserisce omogeneamente nel lavoro linguistico di gran parte della prosa del quinto secolo. Il discorso del medico si colloca bene accanto al discorso dello storico e del retore. Non tanto per- 1

2 ché anche nella prosa medica trovano applicazione canoni espositivi che l oratoria in quel tempo va elaborando, quanto perché è assai simile la concezione implicita nelle loro pratiche linguistiche. La ricerca della chiarezza, di una chiarezza che non si riduca a cifrata trasmissione di informazioni disciplinari, impermeabili ai profani dell arte, esclude ogni forma di straniamento del lettore o dell ascoltatore.[ ] Estraneità e incomprensione del profano, presupposti dell agire del guaritore sacro, del medico sacerdote, non avvantaggiano il professionista ippocratico, la cui attività non si esplica nell area del santuario né in un ideale spazio templare, ma nella vita, parlata, della città. [ ] La collaborazione con il paziente è dunque tra le prime preoccupazioni del medico, ed è collaborazione che si serve della parola» (D. Lanza, Lingua e discorso nell Atene delle professioni, Napoli 1979, p. 120s.). Nell esercizio della sua arte il medico è sempre su un palcoscenico, e variegato è il suo pubblico (cittadini, pazienti, schiera di amici e parenti, sfaccendati, colleghi rivali). Solo il bravo medico è anche un buon attore (Hippocr. Lex 1, L IV 638): Ὁμοιότατοι γάρ εἰσιν οἱ τοιοίδε τοῖσι παρεισαγομένοισι προσώποισιν ἐν τῇσι τραγῳδίῃσιν ὡς γὰρ ἐκεῖνοι σχῆμα μὲν καὶ στολὴν καὶ πρόσωπον ὑποκριτοῦ ἔχουσιν, οὐκ εἰσὶ δὲ ὑποκριταί, οὕτω καὶ ἰητροί, φήμῃ μὲν πολλοί, ἔργῳ δὲ πάγχυ βαιοί Questi [scil. i cattivi medici] assomigliano molto alle comparse delle tragedie. Non a caso, come quelle hanno l aspetto, l abito e la maschera dell attore, ma non sono attori, così anche tra i medici, molti lo sono a parola, pochissimi nei fatti. Pur consapevoli di essere sempre tenuti a recitare al meglio la loro parte, i medici non mancavano di criticare chi esagerava (Hippocr. Med. 4, L IX 210): εὐρύθμους δὲ ἐπιδεσίας καὶ θεητρικὰς μηδὲν ὠφελούσας ἀπογινώσκειν φορτικὸν γὰρ τὸ τοιοῦτον καὶ παντελῶς ἀλαζονικόν, πολλάκις τε βλάβην οἶσον τῷ θεραπευομένῳ ζητεῖ δὲ ὁ νοσέων οὐ καλλωπισμόν, ἀλλὰ τὸ συμφέρον Bisogna rinunciare alle fasciature eleganti e teatrali, prive di qualsiasi utilità, poiché una tale operazione è sintomo della più totale volgarità e ciarlataneria, e andrà spesso a peggiorare la situazione del paziente. Chi è malato va cercando non l ornamento, ma il rimedio. Il medico è l indovino razionale del V secolo a. C. (Hippocr. Prog. 1, L II 110): Τὸν ἰητρὸν δοκέει μοι ἄριστον εἶναι πρόνοιαν ἐπιτηδεύειν προγιγνώσκων γὰρ καὶ προλέγων παρὰ τοῖσι νοσέουσι τά τε παρεόντα καὶ τὰ προγεγονότα καὶ τὰ μέλλοντα ἔσεσθαι, ὁκόσα τε παραλείπουσιν οἱ ἀσθενέοντες ἐκδιηγεύμενος, πιστεύοιτ ἂν μᾶλλον γιγνώσκειν τὰ τῶν νοσεόντων πρήγματα, ὥστε τολμᾷν ἐπιτρέπειν τοὺς ἀνθρώπους σφέας ἑωυτοὺς τῷ ἰητρῷ A mio giudizio, la cosa migliore per il medico è saper effettuare una prognosi. Se prevede e predice al cospetto dei malati presente, passato e futuro, spiegando ciò che essi non sanno, acquista la credibilità di conoscere a fondo i loro problemi, tanto che gli uomini si spingono fino al punto di affidare se stessi al medico. (cf. Il. I 69-70: Κάλχας Θεστορίδης οἰωνοπόλων ὄχ ἄριστος, / ὃς ᾔδη τά τ ἐόντα τά τ ἐσσόμενα πρό τ ἐόντα). Aristotele (EN 1127 b 19-20) fa rientrare μάντις, σοφός e ἰατρός nella categoria di coloro che κέρδους χάριν ἀλαζονευόμενοι. Contro di questi si scaglia la polemica dell autore di Male sacro (Hippocr. Morb.Sacr. 1, L VI 354) Ἐμοὶ δὲ δοκέουσιν οἱ πρῶτοι τοῦτο τὸ νόσημα ἀφιερώσαντες τοιοῦτοι εἶναι ἄνθρωποι οἷοι καὶ νῦν εἰσι μάγοι τε καὶ καθάρται καὶ ἀγύρται καὶ ἀλαζόνες, ὁκόσοι δὴ προσποιέονται σφόδρα θεοσεβέες εἶναι καὶ πλέον τι εἰδέναι I primi a sacralizzare questa malattia [scil. l epilessia], mi pare, furono quegli uomini che oggi sono stregoni, purificatori, impostori e ciarlatani, e tutti pretendono di essere molto devoti 2

3 agli dèi e di saperne di più (cf. Soph. OT : ὑφεὶς μάγον τοιόνδε μηχανορράφον, / δόλιον ἀγύρτην, ὅστις ἐν τοῖς κέρδεσιν / μόνον δέδορκε, τὴν τέχνην δ ἔφυ τυφλός). La medicina è un arte (ἡ ἰατρική), ma bisogna difenderla sia da coloro che τέχνην πεποίηνται τὸ τὰς τέχνας αἰσχροεπεῖν (Hippocr. De arte 1, L VI 2), sia dagli stessi medici che non la praticano a dovere (Hippocr. Lex 1, L IV 638): Ἰητρικὴ τεχνέων μὲν πασέων ἐστὶν ἐπιφανεστάτη διὰ δὲ ἀμαθίην τῶν τε χρεομένων αὐτῇ, καὶ τῶν εἰκῆ τοὺς τοιούσδε κρινόντων, πολύ τι πασέων ἤδη τῶν τεχνέων ἀπολείπεται L arte medica è la più nobile delle professioni. Tuttavia, a causa dell ignoranza dei medici stessi e di coloro che li giudicano alla leggera, essa ormai risulta di molto inferiore rispetto a tutte le professioni. 3

4 IL MEDICO NELLA COMMEDIA Sulla figura del medico nella commedia greca vd. M. Gigante, Il ritorno del medico straniero, «PP» XXIV (1969) ; L. Gil-I.R. Alfageme, La figura del médico en la comedia ática, «CFC» III (1972) 35-91; O. Imperio, La figura dell intellettuale nella commedia greca, in AA.VV., Tessere. Frammenti della commedia greca: studi e commenti, Bari 1998, pp Crates Com. fr. 46 K.-A. ἀλλὰ σικύαν ποτιβαλῶ τοι καἰ τὺ λῆις ἀποσχάσω ma ti applicherò una ventosa e, se vuoi, ti aprirò una vena. La più antica attestazione nella commedia attica del medicus dorice loquens: prep. ποτί (cf. προτί) per ion. att. lesb. προς, eol. πρές, arc. cipr. πος, panf. περτί, mic. po-si (Heilmann 311); pron. pers. dat. 2a pers. sing. τοι (anche lesb. ion.) per att. σοι e pron. pers. nom. 2a pers. sing. τύ per ion. att. σύ (Heilmann 283); crasi καἰ (καὶ αἰ) per ion. att. κεἰ (καὶ εἰ) [cf. infra, n. ad 370]; ind. pres. atv. 2a pers. sing. λῇς da λῶ, variante dorica per βούλομαι con diverso radicale (cf. lat. velle) [DELG 653]. Ar. Nu οὐ γὰρ μὰ Δί οἶσθ ὁτιὴ πλείστους αὗται βόσκουσι σοφιστάς, Θουριομάντεις, ἰατροτέχνας, σφραγιδονυχαργοκομήτας κυκλίων τε χορῶν ᾀσματοκάμπτας, ἄνδρας μετεωροφένακας, οὐδὲν δρῶντας βόσκουσ ἀργούς, ὅτι ταύτας μουσοποιοῦσιν Non sai, per Zeus, che queste dee nutrono quasi tutti gli intellettuali, indovini di Turi, medici praticoni, sfaccendati attenti solo agli anelli, alle unghie e ai capelli; e a straziacanti di cori ciclici, ad astronomi da strapazzo, a questi fannulloni buoni a nulla esse danno da mangiare, perché loro le celebrano in versi. Il medico-sofista: uno dei tanti intellettuali ἀλαζόνες (cf. Men. Asp. 339s.: ἔπειτα παραληφθήσεται / ἐνταῦθ ἰατρός τις φιλοσοφῶν). Epicr. fr. 10, K.-A. ταῦτα δ ἀκούων ἰατρός τις Σικελᾶς ἀπὸ γᾶς κατέπαρδ αὐτῶν ὡς ληρούντων Sentendo ciò, un medico proveniente dalla Sicilia replicò alle loro sciocchezze con delle scorregge. Il medico si esprime in dorico perché a territori di lingua dorica appartengono le grandi scuole mediche (Sicilia appunto, ma anche Italia meridionale, Rodi, Cirene, Cos, Cnido)? Ath. XIV p. 621 DE (cf. Alex. fr. 146 K.-A.) παρὰ δὲ Λακεδαιμονίοις κωμικῆς παιδιᾶς ἦν τις τρόπος παλαιός, ὥς φησι Σωσίβιος οὐκ ἄγαν σπουδαῖος, ἅτε δὴ κἀν τούτοις τὸ λιτὸν τῆς Σπάρτης μεταδιωκούσης. ἐμιμεῖτο γάρ τις ἐν εὐτελεῖ τῇ λέξει κλέπτοντάς τινας ὀπώραν ἢ ξενικὸν ἰατρὸν τοιαυτὶ λέγοντα, ὡς Ἄλεξις ἐν Μανδραγοριζομένῃ διὰ τούτων παρίστησιν ἐὰν ἐπιχώριος ἰατρὸς εἴπῃ τρυβλίον τούτῳ δότε 4

5 πτισάνης ἕωθεν, καταφρονοῦμεν εὐθέως ἂν δὲ πτισάναν καὶ τρυβλίον, θαυμάζομεν. καὶ πάλιν ἐὰν μὲν τευτλίον, παρείδομεν ἐὰν δὲ σεῦτλον, ἀσμένως ἠκούσαμεν, ὡς οὐ τὸ σεῦτλον ταὐτὸν ὂν τῷ τευτλίῳ. Sosibio ci racconta che a Sparta c era un antico genere di intrattenimento comico non troppo impegnativo, poiché anche in questo Sparta cercava la sobrietà. Si imitavano, infatti, con un linguaggio semplice, i ladri di frutta o il medico straniero che parlava così come Alessi mostra nei versi della Donna che beve la mandragora: Se un medico del posto dice dategli al mattino una scodella di orzata, subito lo snobbiamo. Mentre se dice scotela e orsata, restiamo a bocca aperta. E ancora, se dice bietola, lo lasciamo perdere, ma se dice costa, siamo tutto orecchi. Come se bietola e costa non fossero la stessa cosa! La maschera del medico straniero deriva dall antica farsa dorica e viene ripresa dalla commedia di mezzo: il medico si esprime in dorico perché dorica è la lingua del genere teatrale da cui trae origine tale personaggio? Phoenicid. fr. 4, K.-A. ἀφῆκα τοῦτον, λαμβάνω δ ἄλλον τινά, ἰατρόν. οὗτος εἰσάγων πολλούς τινας ἔτεμν, ἔκαε, πτωχὸς ἦν καὶ δήμιος lascio questo per prenderne un altro: il medico. Questo portava in casa molti pazienti, li amputava e li cauterizzava: era un medico pubblico povero come un mendicante. La disagiata condizione economica e sociale dei medici: medicus mendicus (Plaut. Rud ). 5

6 MEDICUS GLORIOSUS (Men. Aspis ) TESTIMONI: P. Bodmer 26 (B); PSI 126 (F); P. Oxy. 4094; P. Köln 331. EDIZIONI PRINCIPALI: R. Kasser-C. Austin, Papyrus Bodmer XXVI. Ménandre: Le Bouclier, Cologny-Genève C. Austin, Menandri Aspis et Samia, I, Berlin F. Sisti, Menandro. Aspis, Roma 1971 (con tr. e comm.). A. Borgogno, Menandri Aspis, Milano 1972 (con tr. e comm.). W.G. Arnott, Menander, I, Cambridge (Mass.)-London 1979 (con tr.). F. H. Sandbach, Menandri Reliquiae selectae, Oxonii 1972 ( ) [di cui si riporta il testo greco]. J.M. Jacques, Ménandre. Le Bouclier, I 3, Paris 1998 (con tr.). TRADUZIONI E COMMENTI: C. Austin, Menandri Aspis et Samia, II, Berlin C. Gallavotti, Noticina sul trimetro comico e sull Aspis di Menandro, «BPEC» XVIII (1970) D. Del Corno, Note all Aspis di Menandro, «ZPE» 6 (1970) F. Sbordone, Menandro. Aspis, Napoli D. Del Corno, Ancora sull Aspis di Menandro, «ZPE» 8 (1971) A.W. Gomme-F.H. Sandbach, Menander. A Commentary, Oxford G. Paduano, Menandro. Commedie, Milano F. Ferrari, Menandro e la Commedia Nuova, Torino P. Ingrosso, Menandro. Lo scudo, Lecce BREVE NOTA SUL TRIMETRO GIAMBICO Il trimetro giambico [ ] utilizzato nella commedia è indubbiamente più vario e libero da schematismi rispetto al trimetro degli autori tragici. Ciò vale soprattutto per Menandro, erede delle innovazioni operate nel campo della metrica e della musica da Euripide e accolte (non solo a fini parodici) già da Aristofane. Infatti, la predilezione di Menandro per forme e costrutti del linguaggio parlato si rileva non soltanto nel lessico o nell impiego paratattico della frase, ma anche nella noncuranza per la purezza del trimetro. Si vedano, per citare gli esempi più evidenti, i numerosi enjambements in cui sono separati nessi inscindibili del discorso, per cui il limite del verso sembra non costituire alcun ostacolo al naturale fluire del discorso; il verificarsi di una o più soluzioni all interno del verso, in una cospicua varietà di tribraci, anapesti e dattili nelle diverse sedi; le costanti infrazioni della legge di Porson ; l uso speciale delle cesure. Non vengono rispettate, insomma, quelle limitazioni o preclusioni solitamente riservate al trimetro tragico (vd. C. Prato-P. Giannini-E. Pallara-R. Sardiello-L. Marzotta, Ricerche sul trimetro di Menandro: metro e verso, Roma 1983). Valgano, in generale, le parole di Sandbach: «I hope it is a correct guess that they [scil. the characters] talk prose such as might have been heard in the streets of Athens. The fitting of this into metre, in particular iambics, is achieved with remarkably little violence to the natural order of words, which is departed from mainly to indicate emotion or confusion; and even this departure is true to life» (F. H. Sandbach, Menander s manipulation of language for dramatic purposes, in AA.VV., Entretiens sur l'antiquité classique. Ménandre, XVI, Vandœuvres-Genève 1969, p. 114s.). 6

7 (ΧΑΙΡΕΣΤΡΑΤΟΣ) λήψομαι, νὴ τὸν Δία, 370 ὧν] ὠδύνηκε πώποτ ἀξίαν δίκην τὸ γὰρ λεγόμενον ταῖς ἀληθείαις λύκος χανὼν ἄπεισι διὰ κενῆς. (ΔΑΟΣ) πράττειν <δὲ> δεῖ 373 ἤδη. ξενικόν τιν οἶσθ ἰατρόν, Χαιρέα, ἀστεῖον, ὑπαλαζόνα; (ΧΑΙΡΕΑΣ) μὰ τὸν Δί οὐ πάνυ. 375 (Δα.) καὶ μὴν ἔδει. (Χαι.) τί δὲ τοῦτο; τῶν ἐμῶν τινα 376 ἥξω συνηθῶν παραλαβὼν καὶ προκόμιον αἰτήσομαι καὶ χλανίδα καὶ βακτηρίαν αὐτῶι, ξενιεῖ δ ὅσ ἂν δύνηται. Δα. ταχὺ μὲν οὖν. 379 (Χα.) ἐγὼ δὲ τί ποῶ; (Δα.) ταῦτα <τὰ> βεβουλευμένα 380 ἀπόθνηισκ ἀγαθῆι τύχηι. Χα. ποήσω μηδένα 381 ἔξω γ ἀφίετ, ἀλλὰ τηρεῖτ ἀνδρικῶς τὸ πρᾶγμα. (Δα.) τίς δ ἡμῖν συνείσεται; (Χα.) μόνηι 383 δεῖ τῆι γυναικὶ ταῖς τε παιδίσκαις φράσαι αὐταῖς ἵνα μὴ κλάωσι, τοὺς δ ἄλλους ἐᾶν 385 ἔνδον παροινεῖν εἴς με νομίσαντας νεκρόν. (Δα.) ὀρθῶς λέγεις. εἴσω τις ἀγέτω τουτονί. ἕξει τιν ἀμέλει διατριβὴν οὐκ ἄρρυθμον ἀγωνίαν τε τὸ πάθος, ἂν ἐνστῆι μόνον, ὅ τ ἰατρὸς ἡμῖν πιθανότητα σχῆι τινα. 390 ΧΟΡΟΥ ACTVS III (ΣΜΙΚΡΙΝΗΣ) ταχύ γ ἦλθ ὁ Δᾶος πρός με τὴν τῶν χρημάτων φέρων ἀπογραφήν, πολύ τ ἐμοῦ πεφρόντικε. Δᾶος μετὰ τούτων ἐστίν. εὖ γε, νὴ Δία καλῶς ἐπόησε. πρόφασιν εἴληφ ἄσμενος πρὸς αὐτὸν ὥστε μὴ φιλανθρώπως ἔτι 395 ταῦτ ἐξετάζειν, ἀλλ ἐμαυτῶι συμφόρως τὰ γὰρ οὐ φανερὰ δήπουθέν ἐστι διπλάσια ἐγὦιδα τούτου τὰς τέχνας τοῦ δραπέτου. CHERESTRATO. Mi prenderò, per Zeus, la giusta vendetta per tutto il dolore che lui mi ha causato. È proprio vero il proverbio: il lupo che arriva con la bocca aperta, se ne andrà a pancia vuota. DAVO. Ma bisogna darsi subito da fare. Conosci un medico straniero, Cherea, cha sappia stare al gioco, un po ciarlatano? CHEREA. Proprio nessuno, per Zeus. DAVO. E invece ce ne sarebbe bisogno. CHEREA. Ma che motivo c è? Arriverò con uno dei miei amici e gli procurerò una parrucca, un mantello e un bastone. Lui intanto si sforzerà quanto potrà di parlare con accento straniero. DAVO. Presto, allora! CHERESTRATO. E io che faccio? DAVO. Quello che abbiamo deciso: muori e buona fortuna! CHERESTRATO. Sarà fatto. Non lascate uscire nessuno, ma custodite il segreto da veri uomini. DAVO. Chi sarà nostro complice? CHERESTRATO. Bisogna avvertire soltanto mia moglie e le ragazze: non voglio che piangano. Ma gli altri dentro, lasciamo pure che mi credano morto e mi insultino. DAVO. È giusto quello che dici. Qualcuno lo porti in casa, questo malato qui. Ci sarà da divertirsi e di che essere ansiosi, non c è dubbio, se solo il dramma viene inscenato e il medico ci convince. SMICRINE. Davo è arrivato davvero in fretta da me con la lista dei beni! Lui sì che ha un gran considerazione di me! Del resto, Davo sta dalla loro parte. Bene, per Zeus, ha fatto proprio bene. Sono contento di aver trovato un pretesto per compilare questa lista senza più nessun riguardo verso di lui, ma a mio totale vantaggio. Certo il denaro contante è il doppio: le conosco le astuzie di questo schiavo fuggitivo.

8 (Δα.) ὦ δαίμονες, φοβερόν γε, νὴ τὸν Ἥλιον, τὸ συμβεβηκός οὐκ ἂν ὠιήθην ποτὲ 400 ἄνθρωπον εἰς τοσοῦτον οὑτωσὶ ταχὺ πάθος ἐμπεσεῖν. σκηπτός τις εἰς τὴν οἰκίαν ῥαγδαῖος ἐμπέπτωκε. (Σμ.) τί ποτε βούλεται; 403 (desunt uersus ii) [...]μονονβα[...]ν[ [...]αρα[ 405 ἅνθρωπος ὑπ[ (Δα.) οὐκ ἔστιν ὅστις π[άντ ἀνὴρ εὐδαιμονεῖ. πάλιν εὖ διαφόρως. ὦ πολ[υτίμητοι θεοί, ἀπροσδοκήτου πράγματος καὶ ἀ[ (Σμ.) Δᾶε κακόδαιμον, ποῖ τρέχεις; [Δα.] καὶ τοῦτό που 410 τύχη τὰ θνητῶν πράγματ οὐκ εὐβουλία. ὑπέρευγε. θεὸς μὲν αἰτίαν φύει βροτοῖς, ὅταν κακῶσαι δῶμα παμπήδην θέληι. Αἰσχύλος ὁ σεμνά (Σμ.) γνωμολογεῖς, τρισάθλιε; 414 (Δα.) ἄπιστον, ἄλογον, δεινόν. (Σμ.) οὐδὲ παύσεται; 415 (Δα.) τί δ ἐστ ἄπιστον τῶν ἐν ἀνθρώποις κακῶν; ὁ Καρκίνος φήσ ἐν μιᾶι γὰρ ἡμέραι τὸν εὐτυχῆ τίθησι δυστυχῆ θεός. εὖ πάντα ταῦτα, Σμικρίνη. (Σμ.) λέγεις δὲ τί; 419 (Δα.)ἁδελφός ὦ Ζεῦ, πῶς φράσω; σχεδόν τι σου τέθνηκεν. (Σμ.) ὁ λαλῶν ἀρτίως ἐνταῦθ ἐμοί; 421 τί παθών; (Δα.) χολή, λύπη τις, ἔκστασις φρενῶν, 422 πνιγμός. (Σμ.) Πόσειδον καὶ θεοί, δεινοῦ πάθους. 423 (Δα.) οὐκ ἔστιν οὐδὲν δεινὸν ὧδ εἰπεῖν ἔπος οὐδὲ πάθος (Σμ.) ἀποκναίεις σύ. (Δα.) τὰς γὰρ συμφορὰς 425 ἀπροσδοκήτους δαίμον[ες δι]ώρισαν. DAVO. O dèi, è successa una cosa terribile, per Elios. Non avrei mai creduto che un uomo potesse ammalarsi tanto e così in fretta. Un uragano ha scatenato la sua furia sulla nostra famiglia. SMICRINE. Che vuole mai dire? [ ] DAVO. Nessun uomo può essere completamente felice. Anche questo verso è bellissimo. O dèi molto venerati, un evento inatteso [ ]. SMICRINE. Davo maledetto, dove corri? DAVO. E c è anche questo: La sorte regola le questioni dei mortali, non la ragione. Stupendo! La divinità trova sempre un motivo ai mortali, quando vuole radere al suolo la loro casa. Splendide parole di Eschilo! SMICRINE. Reciti sentenze, gran disgraziato? DAVO. Incredibile, assurdo, tremendo. SMICRINE. Non ha intenzione di smetterla? DAVO. Ma quale delle umane sciagure è incredibile? recita Carcino. Nello stesso giorno la divinità rende misero l uomo fortunato. Tutte perle di saggezza, Smicrine. SMICRINE. Ma che dici? DAVO. Tuo fratello o Zeus, come glielo spiego? è quasi morto! SMICRINE. Lui che stava chiacchierando qui con me proprio un attimo fa? Cosa gli è successo? DAVO. Bile, una certa afflizione, delirio, soffocamento. SM. O Poseidone e dèi tutti, che sventura terribile! DAVO. Non esiste alcuna parola così terribile da pronunciare, né sofferenza. SMICRINE. Mi stai scocciando! DAVO. Gli dèi stabilirono che le disgrazia dovessero giungere inaspettate. 8

9 Εὐριπίδου τοῦτ ἐστί, τὸ δὲ Χαιρήμονος, οὐ τῶν τυχόντων. (Σμ.) εἰσελήλυθεν δέ τις 428 ἰατρός; (Δα.) οἴχεται μὲν οὖν ὁ Χαιρέας 429 ἄξων. (Σμ.) τίν ἆρα; (Δα.) τουτονί, νὴ τ[ὸν Δία, 430 ὡς φαίνεται. βέλτιστ, ἐπισπ[ε]ῦ[δ. [ΙΑΤΡΟΣ] 431 (Δα.) δυσάρεστον οἱ νοσοῦντες ἀπορίας ὕπο. Σμ. ἐμὲ μὲν ἐὰν ἴδωσιν εὐθὺς ἄσμενον φήσουσιν ἥκειν, τοῦτ ἀκριβῶς οἶδ ἐγώ, αὐτός τ ἐκεῖνος οὐκ ἂν ἡδέως μ ἴδοι 435 ]ιδ ἄτοπον οὐδ ἐπηρόμην (desunt uersus circa xvi) ].ν (deest unus versus) αὐτῶ τὰν χολὰν ]ιμε[..].δη φερομένωι 440 ]διὰ τὰν παρεῦσαν ἀπορίαν. (Σμ.) ]ω τοῦτο δήπου μανθάνω. (Ια.) ]σαν. (Σμ.) ταῦτα δήπου μανθάνω. 443 (Ια.) α]ὐτὰς τὰς φρένας δή μοι δοκῶ ]. ὀνυμάζειν μὲν ὦν εἰώθαμες 445 φ]ρενῖτιν τοῦτο. <Σμ.> μανθάνω. τί οὖν; 446 (Ια.) οὐκ ἔστ]ιν ἐλπὶς οὐδεμία σωτηρίας. καίρια] γάρ, αἰ μὴ δεῖ σε θάλπεν διὰ κενᾶς, τὰ τοια]ῦτα. (Σμ.) μὴ θάλπ, ἀλλὰ τἀληθῆ λέγε. 449 (Ια.) οὐ πάμπαν οὗτός ἐστί τοι βιώσιμος. ἀνερεύγεταί τι τᾶς χολᾶς ἐπισκοτεῖ ]εντ.[..] καὶ τοῖς ὄμμασι ]υκνον ἀναφρίζει τε καὶ ]. ας ἐκφορὰν βλέπει. (Σμ.) [Ια.] ]. προάγωμες, παῖ. (Σμ.) σέ, σέ 455 Il primo verso è di Euripide, il secondo di Cheremone, che non sono poeti a caso. SMICRINE. È venuto un medico? DAVO. Al contrario, Cherea è andato a prenderlo. SMICRINE. Ma chi è? DAVO. Eccolo che arriva, per Zeus. Fai in fretta, carissimo. DAVO. I malati, nella loro sofferenza, sono difficili da accontentare. SMICRINE. Se mi vedono, diranno subito che sono venuto tutto contento, non ne ho il minimo dubbio, e lui stesso non sarebbe contento di vedermi [ ] MEDICO. [ ] la sua bile [ ] ormai trasportato [ ] per la presente sofferenza. SMICRINE. Si, capisco. MEDICO. [ ] SMICRINE. Si, capisco. MEDICO. Mi sembra il diaframma [ ]. Siamo soliti definire questa malattia frenite. SCMICRINE. Capisco. E allora? MEDICO. Non c è alcuna speranza di salvarlo. Simili malattie sono mortali, a meno che non debba confortarti con vane parole. SM. Non confortarmi! Dimmi invece la verità! MEDICO. Non hai la benché minima possibilità che lui sopravviva. Vomita bile [ ] ottenebra [ ] e agli occhi [ ] e ha la bava alla bocca [ ] è pronto per il funerale. SMICRINE. [ ] MEDICO. Andiamo, ragazzo. SMICRINE. Ehi, tu! 9

10 ] [Ια.] ].μετακαλῆς; (Σμ.) πάνυ μὲν οὖν. δ]εῦρ ἀπὸ τῆς θύρας ἔτι. (Ια.) οὐ]κ ἂν βιώιης τὼς τέως. (Σμ.) ]αὐτὸν εὔχου τρόπον ἔχειν ].πολλὰ γίνεται. (Ια.) γέλα 460 ]φαμι τᾶς ἐμᾶς τέχνας τ]ὺ δ αὐτός μοι δοκῆς..].[.].[.] κεαλην ἀλλ ὑπέρχεταί τι τοι φθιτικὸν νόσαμα τὺ μὲν ὅλως θανάτους βλέπεις. MEDICO. Mi stai chiamando? SMICRINE. Si, si!. [ ] qui via dalla porta. MEDICO. [ ] non ti resta molto da vivere. SMICRINE. [ ] prega che trovi un modo [ ] Può succedere di tutto. MEDICO. Ridi [ ] conosco il mio mestiere [ ] anche tu mi sembri [ ] ti si sta insinuando una malattia mortale. Hai praticamente la morte negli occhi. 10

11 COMMENTO 370ss.: Gomme-Sandbach (n. ad loc.), nell attribuire la prima parte della battuta a Cherestrato, tiene conto sia del dicolon dopo κενῆς in Β sia del risentimento che traspare dalle parole, che ben si adattano al rancore di Cherestrato nei confronti del fratello Smicrine. Coloro che invece propendono per assegnare tutta la battuta a Davo (Austin, Sbordone, Borgogno, Arnott, Paduano), adducono, in generale, le seguenti motivazioni: Dalla fotografia di B si ricava la lettura ] ὠδύνηκε piuttosto che ] ὠδύνηκε. Il dicolon potrebbe indicare, come già altrove in B, non il cambio di battuta, bensì il cambio del personaggio cui Davo si rivolge (ovvero da Cherestrato a Cherea). Il tono quasi trionfalistico dei versi si confà meglio all ideatore del tranello, più che a Cherestrato, che, come Cherea, ha compreso a fatica le reali intenzioni del piano di Davo (vd. vv. 329ss.). I dubbi permangono in entrambe le direzioni. 370: le interiezioni che chiamano in causa le divinità appartengono al registro espressivo della Umgangssprache. Senonché, Men. le adopera spesso con un intento velatamente artistico, in relazione al contesto in cui compaiono. In questo caso, ad esempio, l appello a Zeus va di pari passo con il richiamo alla giusta δίκη. Cf. D. Del Corno, Alcuni aspetti del linguaggio di Menandro, «SCO» XXIV (1975) 43s. Per νή cf. ναί e νεί (beot.), lat. nē, nam e enim. Diversamente interpretato è il rapporto tra νή, ναί e νεί, per cui si può supporre un alternanza fonetica risalente al greco comune, simile a quella della congiunzione ipotetica: εἰ (ion. att. arc.), αἰ (gr. occ. eol.), ἠ (cipr.). Vd. DELG : ὠδύνηκε, ind. pf. atv. 3a pers. sing. di ὀδυνάω, è un hapax legomenon. Più comune il pf. medio dello stesso verbo. In generale, il pf. radicale indica originariamente lo stato del soggetto nel presente in seguito ad un azione compiuta nel passato, ed è per questo intransitivo (pf. stativo : e.g. πέποιθα ho fiducia va con πείθομαι non con πείθω). In seguito, il pf. assume valore transitivo, riflettendo non tanto lo stato del soggetto, quanto il risultato dell azione sull oggetto (pf. resultativo : e.g. Μάρκος τὴν ἐπιστολὴν γέγραφε vale non solo Marco ha scritto la lettera, ma anche la lettera è stata scritta ). A svilupparsi come marca del pf. resultativo è soprattutto il suff. -κα. In questo modo, il pf., perdendo progressivamente la sua valenza aspettuale per acquistare quella temporale, giunge ad essere un mero doppione dell aor., e in quanto tale viene eliminato dal greco moderno. Vd. Heilmann 323 e 386. Al tempo di Men. sussisteva ancora una certa contrapposizione tra aor. e pf., ma le differenze tra i due temi verbali si facevano sempre più sfumate e sottili, come opportunamente rilevato da Chantraine: «Le parfait prend ainsi une valeur d insistance affective, et nous verrons qu en ce rôle il est très fréquent chez les comiques ou chez les orateurs. En ce sens, suivant les intentions de l écrivain, il peut souvent alterner avec l aoriste: s il veut souligner la responsabilité de l agent, sa culpabilité ou son mérite, c est le parfait qu il emploie; s il se contente d énoncer purement et simplement le fait, l aoriste suffit» (P. Chantraine, Histoire du parfait grec, Paris 1927, p. 164s.). Nel nostro caso Men. vuole sottolineare attraverso il pf. ὠδύνηκε la responsabilità di Smicrine, colpevole di far soffrire il fratello con la sua avidità. È stata proprio la larghissima diffusione di questo tipo di pf. tra il IV e il III secolo a.c. a favorirne il rapido ed inesorabile declino, come ancora Chantraine non manca di sottolineare: «Jamais le parfait n a été aussi fréquent que dans le discours de Démosthène ou dans les comédies de Ménandre; mais jamais non plus la valeur n en a été aussi floue et incertaine. C est au moment de son plus grand développement qu il est le plus proche de sa ruine; la constitution d une conjugaison qui en a facilité la 11

12 diffusion, en a profondément altéré le caractère originel et lui a enlevé le rôle particulier qu il jouait dans le système verbal indo-euoropéen» (P. Chantraine, o.c., p. 189s.). La lingua di Men., quindi, appartiene ad una fase transitoria tra l attico del V secolo e la κοινὴ διάλεκτος (vd. D.B. Durham, The Vocabulary of Menander considered in its Relation to the Koine, Princeton 1913 [rist. anast. Amsterdam 1969]). 372s.: il proverbio del lupo avaro rappresenta un modo di dire ben attestato nella tradizione popolare greca, con numerose attestazioni nella commedia greca e nella palliata latina. Il proverbio è stato ampiamente spiegato e commentato dai paremiografi e lessicografi greci. Per maggiori dettagli vd. R. Tosi, Dizionario delle sentenze latine e greche, Milano 1991, 873. Men. usa costantemente la forma attica πραττ-, di contro a πρασσ- dello ionico e della maggior parte delle parlate greche. La κοινή preferisce, non senza alcune oscillazioni e resistenze, la seconda, in quanto il -ττ- viene sentito come una particolarità espressamente attica. Vd. A. Meillet, Lineamenti di storia della lingua greca, tr. it. Torino 2003, pp. 335s. e : οἶσθα è la 2a pers. sing. del pf. senza radd. οἶδα. La flessione arcaica o omerica ( οῖδα, οῖσθα, οῖδε, ίδμεν, ίστε, ίσαντι [innovazione comune del greco con ισ- analogico e infisso nasale]) non subisce sostanziali mutamenti in att., eccetto che per la 1a pers. pl. ἴσμεν (con -σ- analogico) e per la 3a pers. pl. ἴσᾱσι (con caduta della nasale e allungamento di compenso). Ma già nello ionico erodoteo incontriamo la coniugazione regolarizzata οἶδα, οἶδας, οἴδαμεν, che prevale poi nella κοινή. In Men., a lato di οἶσθα, compare οἶσθας (cf. ἦσθας ind. impf. 2a pers. sing. di εἰμί), che non rappresenta altro che un tentativo di normalizzazione dell att., sostituito in seguito dalla forma impostasi nella lingua comune. Altra semplificazione del tipo flessivo di οἶδα, che attecchisce in parte anche nella κοινή, si ha nel dorico (Sicilia e Cirene) ἴσᾱμι (analogico sulla 3a pers. pl.). Vd. A. Meillet, o.c., p. 356s. 375: ἀστεῖος (da ἄστυ) è usato sempre in senso figurato: educato in città, colto, raffinato, elegante, spiritoso. Per il significato proprio di cittadino si adoperano ἀστός o ἀστικός. Vd. DELG 130 e LSJ 9 260ss. La traduzione riflette l interpretazione di Gomme-Sandbach (n. ad loc.): «one who will see the joke and help to play it». Hapax legomenon rappresenta ὑπαλαζόνα. La prep. ὐπό può indicare approssimazione (DELG 1160), e in tal senso viene spesso impiegata da Men. in composizione: vd. e.g. ὑπόλειος (Sic. 91, 201), ὑπομελαγχολάω (Phasm. 57), ὑπομαίνομαι (Epit. 878). I primi due termini sono anch essi hapax legomena, mentre il terzo compare già in Hippocr. Vict. I : si noti come δέ non sia accompagnato dal corrispettivo μέν. Tale tratto stilistico, proprio di un registro aderente alla lingua d uso, si riscontra spesso in Men., per il quale la particella δέ viene così ad assumere un senso prossimo a quello di ἀλλά (vd. anche τοὺς δ ἄλλους v. 385). 380: il passaggio da ποιέω a ποέω (qui contratto ποῶ), con caduta del secondo elemento del dittongo, che davanti a vocale assumeva articolazione consonantica, è un fenomeno attestabile in vari dialetti e presente in attico ancora intorno al 300 a. C. (Heilmann 42). Vd. anche ποήσω (v. 381) e ἐπόησε (v. 394). 381: ottima per il senso la congettura di Gallavotti μηδὲ ἕν in luogo μηδένα (nel senso di non lasciate che trapeli nulla ), ma non supportata dai documenti papiracei. I sintagmi οὐδὲ εἷς e μηδὲ εἷς sono molto frequenti nel lin- 12

13 guaggio della commedia, per rafforzare il concetto di non uno (vd. soprattutto Aristofane; già depotenziati in Men.), e non a caso compaiono generalmente in posizione enfatica a fine verso. Essi andavano a sostituire gli antichi οὐδείς e μηδείς, che avevano perso la loro carica espressiva. Nell attico delle persone colte dalle forme elise οὐδ εἷς e μηδ εἷς derivano, con passaggio dell aspirazione alla consonante dentale che si assordisce, le forme οὐθείς e μηθείς, che dal 300 al 60 a. C. sono le uniche a comparire nelle iscrizioni di Atene. Nella κοινή prevalgono οὐδείς e μηδείς, ovvero le forme che il popolo ha continuato a pronunciare. I papiri di Men. ci testimoniano un alternanza οὐδείς/οὐθείς e μηδείς/μηθείς, per la quale non è possibile stabilire con certezza se si tratti di un oscillazione dei copisti o se risalga allo stesso Menandro (cf. infra, n. ad 429). Vd. A. Meillet, o.c., pp e : in B, a margine, compare la nota personae ΧΑΙΡΕΑΣ. Secondo Gomme-Sandbach si tratta di un errore, in quanto Cherea è uscito di scena in tutta fretta al v. 379 per andare a cercare il suo amico medico. Secondo i due studiosi, quindi, la battuta τίς συνείται; va attribuita a Davo, non a Cherea. Altri, invece, tengono conto dell indicazione di B, in quanto, da un lato, non ritengono che l interrogativo suoni bene in bocca all ideatore del piano, dall altro, considerano non necessariamente immediata l uscita di scena di Cherea, tanto che Austin, seguito da Sisti e Borgogno, assegna a Cherea, invece che a Davo, anche i vv : ταῖς παιδίσκαις sono la figlia di Cherestrato e la sorella di Cleostrato. 385: τοὺς ἄλλους sono i servitori della casa di Cherestrato. 386: il verbo παροινέω, usato esclusivamente dalla prosa e dalla commedia (cf. e.g. Men. Dys. 93; Pk. 410), dal significato proprio di agire da ubriaco, assume il senso più generale di mettersi a fare l ubriaco, comportarsi male come un ubriaco. Quindi passa ad indicare ogni atto di brutalità commesso senza essere ubriaco (LSJ : «insult, maltreat»). Cf. Hesych. π 967 H. * παροινία ἡ ἐκ τοῦ οἴνου ὕβρις. καὶ οἱαδήποτε ἁμαρτία e Hesych. π 969 H. παροινιάσαι ὑβρίσαι, λοιδορῆσαι. 387: τουτονί (vd. anche v. 430) con particella posposta di valore dimostrativo -, ben attestata in attico e nella lingua dei comici in generale (Heilmann 274). Cf. arc. cipr. tess. ὁνί. L etimologia sembra risalire a un particolare dimostrativo i.e. (DELG 452). 388s.: il campo semantico di διατριβή (letteralmente consumare il tempo ; cf. διατρίβω) comprende essenzialmente tre accezioni: 1. passatempo, divertimento; 2. occupazione seria, studio; 3. perdita di tempo, ritardo (LSJ 9 416). Sulla scorta di Del Corno e Ingrosso (nn. ad loc.), ritengo che in questo contesto il termine assuma un valore volutamente ambiguo (vd. infra). Il termine ἀγωνία (cf. ἀγών) «ne présente plus aucun rapport avec le sens originel de cette famille de mots, lutte, exercice, d où à partir de Démosthène et Aristote angoisse» (DELG 17). Esso, dunque, non può riferirsi ad uno stato fisico, bensì ad una condizione mentale (LSJ 9 19), nel senso appunto di animi trepidatio. Il problema sta nello stabilire a chi tale angoscia vada attribuita, dal momento che il soggetto di ἕξει non viene esplicitato. Austin pensa si tratti di Cherestrato. Secondo Del Corno, invece, è poco probabile che l ansietà di Cherestrato dipenda dalla messa in atto dello stratagemma e dalla credibilità del medico. Semmai è Smicrine, sempre a detta dello studioso, a dover provare trepidazione nella scelta tra le due ereditiere, qualora l inganno riesca. All ipotesi 13

14 di Del Corno si può muovere l obiezione che τουτονί (v. 387) richiama senza ombra di dubbio Cherestrato. Sandbach propone di interpungere diversamente (ἀγωνίαν τε τὸ πάθος, ἂν ἐνστῆι μόνον in luogo ἀγωνίαν τε, τὸ πάθος ἂν ἐνστῆι μόνον) e di individuare in τὸ παθός (nel senso di finta malattia o di finto dramma ) il soggetto di ἕξει. Questa interpretazione non solo permette di riferire l ansia per l esito della vicenda ad entrambe le parti in causa, ma fa sì che διατριβή acquisti una pregnanza particolare, sottintendendo tutti i e tre i suoi significati (vd. supra): la questione dell eredità è un affare serio, e se il piano escogitato da Davo andrà in porto, essa si risolverà in puro divertimento per i sostenitori del piano e, contemporaneamente, in una sonora sconfitta per Smicrine, la cui avidità non gli causerà altro che spreco di tempo e di energie. Infine, si tengano presenti le parole di Paduano (n. ad loc.): «ἕξει senza soggetto espresso risponde forse a esigenze espressive (di minacciosa indeterminatezza)». Su questa linea si pone linea la mia traduzione. 397: τὰ γὰρ οὐ φανερὰ (scil. χρήματα) è termine tecnico greco per indicare i beni mobili (cf. πλοῦτος ἀφανής Men. Dys. 812). Al contrario, per i beni immobili, vd. e.g. Lys. 12, 83 (τὰ χρήματα τὰ φανερὰ). 407: cf. Eur. fr. 661, 1 K. Non si tratta del solito gioco paratragico caratteristico della commedia aristofanea (paratragodía). Come afferma Gallavotti (p. 89), «nell Aspis la novità di Menandro, rispetto alla commedia antica, consiste nel non alludere di sfuggita, o parodiare, o magare ricalcare scene tragiche (come fa lo stesso Menandro nella rhesis del Sicionio rispetto all Oreste di Euripide), sibbene in questo citare con precisione i versi delle opere ormai classiche di antichi tragici, accompagnandoli con il nome dei vari autori: si citano i versi e gli autori con un gusto che serve al motivo comico senza dubbio, ma che è pure un gusto erudito e libresco». Non ci sorprende che a citare a memoria questa e le successive massime tragiche sia Davo, il quale non è un semplice servo, ma, come egli stesso afferma al v. 14, il παιδαγωγός di Cleostrato. Proprio il suo lamento per la morte del padrone, con cui ha inizio la commedia, si avvicina molto allo stile tragico, non solo da un punto di vista lessicale, ma anche metrico, per via della presenza costante delle cesure pentemimere ed eftemimere, del rispetto della legge di Porson, del minor numero di soluzioni (vd. F. H. Sandbach, Menander s manipulation of language for dramatic purposes, in AA.VV., Entretiens sur l'antiquité classique. Ménandre, XVI, Vandœuvres-Genève 1969, p. 133s.). 411: cf. Chaerem. TrGF 71 F : cf. Aesch. fr. 154a, 15s. R. 414ss.: cf. Carc. TrGF 70 F 5a. 422s.: Davo elenca uno dietro l altro i sintomi della finta malattia. La coordinazione per asindeto, frequente in Men., realizza quella propensione al risparmio tipica della Umgangssprache. 424ss.: cf. per la prima citazione Eur. Or. 1s., per la seconda Chaerem. TrGF 71 F 42. Il verbo ἀποκναίω sembra appartenere all uso parlato dell attico. Cf. Moer. α 145 H. ἀποκναίεις Ἀττικοί ἀναιρεῖς Ἕλληνες. 427: a τὸ δὲ è da preferire τόδε (Sisti, Jacques), che meglio si lega a τοῦτο precedente. Cf. e.g. Thuc. I 144, 2: οὔτε γὰρ ἐκεῖνο κωλύει ἐν ταῖς σπονδαῖς οὔτε τόδε. 14

15 429: B ha ουθεισοιχεταιμεν[, mentre F ουδεισοιχεταιμενουνοχαιρεας (sull oscillazione tra οὐθείς e οὐδείς cf. n. ad 381). Il verso, in entrambi i casi, risulta avere un piede di troppo. Gli editori si comportano in vario modo. Gallavotti (seguito da Sisti, Borgogno e Arnott) propone οὐθείς οἴχεται μὲν Χαιρέας, Austin οὐθείς οἴχετ οὖν ὁ Χαιρέας. La soluzione migliore sembra essere quella di Sandbach: «It is better to drop οὐθείς, following Vitelli, as an addition intended to make the meaning plain» (Gomma-Sandbach, n. ad loc.). Così facendo, si mantiene μὲν οὖν, che talvolta impiegato nel dialogo per correggere una precedente asserzione (GP 2 475), si addice perfettamente al contesto. 432: cf. Eur. Or ss.: la lingua del falso medico può essere definita «un dorico letterario, con infiltrazioni attiche che è difficile decidere se vadano intese come realistica difficoltà di recitare la propria parte nell amico di Cherea o, forse meglio, come errori del copista» (Paduano, p. 345, n. 53). Per risultare più convincente, l amico di Cherea fa sfoggio di numerosi termini tecnici della medicina ippocratica. Per maggiori dettagli vd. T. Simone, La medicina nelle commedie di Menandro: richiami e suggestioni, «Rudiae» 19 (2007) Il pron. ἀυτῶ presenta l uscita del gen. sing. masch. (in seguito alla contrazione -οο) tipica della Doris severior (Laconia, Taranto, Eraclea, Creta, Cirene) [Heilmann 53]. Austin congettura αὐτῶι. Si conserva l ᾱ panellenico in τὰν χολὰν: vd. anche τὰν (v. 441); κενᾶς (448); τᾶς χολᾶς (v. 451); φαμι (v. 461). 441: παρεῦσαν (part. pres. atv. acc. femm. sing. di πάρειμι) con contrazione ionica (εο/εου ευ). Questa, che non rappresenta una vera e propria contrazione, bensì una chiusura del secondo elemento in -υ, si è estesa anche alle parlate doriche (Heilmann 56). Cf. Erinn. AP VII 710, 5: εὖσαν. 445: per ὀνυμάζειν cf. Pind. P. 2, 44 (ὀνύμαξε); 7, 5 (ὀνυμάξομαι). Forse ὀνυμάζεν (cf. n. ad 448). Dor. (e ion.) ὦν per οὖν. La des. di 1a pers. pl. -μες (εἰώθαμες) è attestata per il gr. occ., gli altri dialetti hanno -μεν. Tale differenziazione potrebbe risalire alla flessione i.e., con -μες che risulta più antico (cf. lat. -mus). Vd. anche προάγωμες (v. 454). 446: la più famosa e completa descrizione della frenite ( alienazione mentale con febbre ) nel Corpus Hippocraticum si ha in Morb. I 30 (L VI 200). Essa, insieme a mania ( alienazione mentale senza febbre ) e melancolia ( tristezza senza causa ), rappresenta una delle forme classiche della follia (Cels. III 18). 447: l assenza di dorismi ha portato Austin (nel commento, n. ad loc.), seguito da Borgogno, Arnott, Paduano, Jacques, Ferrari, ad assegnare la battuta a Smicrine, considerando però errata la collocazione del dicolon in B. Si tratterebbe di una domanda rivolta al medico e che si addice al carattere cinico di Smicrine. 448: su αἰ vd. n. ad 370. In luogo di att. σε (pron. pers. acc 2a pers. sing.) ci aspetteremmo il dor. τε o, meglio ancora, τύ (Heilmann 283). In θάλπεν (inf. pres. atv.) si riscontra l arcaica desinenza degli infiniti delle forme tematiche -εν, presente in numerose parlate del gr. occ. e in arc. cipr. (Heilmann 423). 15

16 450: τοι può essere dativo etico (dor. in luogo di att. σοι, cf. supra, p. 4) o particella, anche se «the particle τοι is not found in Menander except in compounds (μέντοι etc.)» (Gomme-Sandbach, n. ad loc.). 451: ἀνερεύγεται rappresenta una sorta di ipertecnicismo: il medico ciarlatano tenta di colorire ulteriormente il suo linguaggio adottando un verbo raro come ἀνερεύγομαι invece del più comune ἐμέω, ben attestato col significato fisiologico di vomitare sia nella letteratura medica sia nella commedia. Il corrispondente attico e della prosa è ἐρυγγάνω (cf. lat. rugio [DELG 368]). 452: in luogo di ὄμμασι non troveremo mai in Men. le forme duali ὄσσε e ὀφθαλμώ. In origine il duale, eredità dell i.e., non era impiegato dai parlanti in maniera casuale, ma ogni qual volta si trattava di ciò che era doppio per natura. Eliminato rapidamente dalla maggior parte delle parlate greche, esso resiste ancora nel V e IV secolo in quei dialetti dai tratti più conservativi, specialmente nell attico. Ma nella κοινή il duale va incontro ad un progressivo scadimento, fino alla sua totale scomparsa. In Aristofane è usato regolarmente, mentre in Men. permangono solo certe forme cristallizzate, quali νὴ τὼ θεώ. Vd. Heilmann 158; A. Meillet, o.c., p. 346s. 453: ἀναφρίζει rappresenta un altro ipertecnicismo per i più comuni ἀφρέω e ἀφρίζω (cf. ἀφρός). 456: μετακαλῆς (ind. pres. atv. 2a pers. sing. da μετακαλέω) può essere o puro dorismo, con desinenza -ες (cf. Theocr. 1, 3 συρίσδες [Heilmann 409]) ed esito della contrazione -έες (Heilmann 53), o iperdorismo per analogia con la 2a pers. plur. del tipo δοκῆτε = δοκεῖτε. Vd. anche δοκῆς (v. 462). Austin propone μετακαλῆις (congettura rifiutata dallo stesso nel commento, n. ad loc.). 458: ci aspetteremmo in luogo della forma di particella modale ἄν (ion. att. arc.), la forma κα tipica del gr. occ. (ma anche beot.). In lesb. tess. cipr. κε(ν). Tale ripartizione risale probabilmente al greco comune. L uso di τώς per ὡς caratterizza la parlata del Megarese in Ar. Ach Ma τώς è attestato già in Omero e nei tragici. Gronewald propone di sostituire τὼς τέως con τὼς θεώς, interpretando l art. e il sost. come acc. pl. masch. (esiti dell allungamento di compenso da ονς, tipico della Doris severior [Heilmann 88-90]), e il verbo βιώιης come ott. di βιάω anziché di βιόω. La congettura è accolta da Jacques che traduce «tu ne saurais vorcer la main des dieux» (p. 33). 460: la grafia γιν- per γίγνομαι (e γιγνώσκω) è costante nei papiri di Men., per cui si suppone sia la grafia assunta dallo stesso autore. Le forme γίνομαι e γινώσκω, normali in ion. (di contro al conservativo att. γίγνομαι / γιγνώσκω), in quanto rispondono ad esigenze linguistiche comuni (debolezza articolatoria del γ interno seguito da nasale rispetto al γ iniziale in posizione forte), sono quelle che finiscono per prevalere nella κοινή (A. Meillet, o.c., p. 372). 464: φθιτικὸν è un iperdorismo (cf. φθισικός) per analogia con τι > σι (innovazione di mic. arc. cipr. ion. att. lesb.). Altro iperdorismo rappresenta νόσαμα (cf. νόσημα). B ha σύ anziché τύ. Gallavotti propone di mantenere il testo tradito e, in assenza di dorismi, assegnare la battuta σὺ βλέπεις a Smicrine o Davo. Sisti, attribuendola al primo, che riprenderebbe in tono sarcastico una frase precedente pronunciata dal medico (v. 454), traduce «tu vedi le morti dappertutto» (p. 69). In tal senso va rifiu- 16

17 tata anche la congettura θανάτως di West. Austin, seguito da Arnott e Jacques, mantiene il testo tradito, ma, pur priva di dorismi, attribuisce la battuta al medico. CONCLUSIONI La figura del medico greco nell antica Grecia: tra professionalità e ciarlataneria. Il medico nella commedia (mere ipotesi su scarsità di dati): la maschera del medico, attiva già nella farsa dorica, viene ripresa dal filone politicamente disimpegnato dell archaia; il medico in quanto personaggio è assente nelle undici commedie intere di Aristofane, dal momento che il suo ruolo ininfluente nelle decisioni politiche della polis lo rendono inadatto a figurare come bersaglio dell ὀνομαστὶ κωμῳδεῖν; la figura del medico ritorna nella mese e nella nea tra i personaggi tipici del teatro borghese, e tale viene ereditato dalla palliata (cf. Plaut. Men ) La lingua di Men.: «il confronto fra la lingua di Aristofane e quella di Menandro è il miglior mezzo per rendersi conto dei cambiamenti che si sono verificati nella lingua delle persone colte di Atene tra il V e il III secolo» (A. Meillet, o.c., p. 275s.) Plat. Gorg. 464 d-e : ὑπὸ μὲν οὖν τὴν ἰατρικὴν ἡ ὀψοποιικὴ ὑποδέδυκεν, καὶ προσποιεῖται τὰ βέλτιστα σιτία τῷ σώματι εἰδέναι, ὥστ εἰ δέοι ἐν παισὶ διαγωνίζεσθαι ὀψοποιόν τε καὶ ἰατρόν, ἢ ἐν ἀνδράσιν οὕτως ἀνοήτοις ὥσπερ οἱ παῖδες, πότερος ἐπαΐει περὶ τῶν χρηστῶν σιτίων καὶ πονηρῶν, ὁ ἰατρὸς ἢ ὁ ὀψοποιός, λιμῷ ἂν ἀποθανεῖν τὸν ἰατρόν «Quindi, l arte culinaria è un surrogato della medicina, e fa finta di conoscere i cibi più salutari per il corpo, tanto che se un cuoco e un medico dovessero gareggiare davanti a un tribunale di bambini o di uomini privi di giudizio come bambini, per decidere quale dei due, il medico o il cuoco, sia un intenditore delle proprietà benefiche o nocive dei cibi, il medico morirebbe di fame». 17

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